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La Marmolada, montagna simbolo delle montagne del Novecento, è un’icona che stiamo rapidamente perdendo, una sentinella che continua a lanciare allarmi pressoché inascoltati. Eppure si mette la testa sotto la sabbia, o meglio sotto la poca neve rimasta. Il ghiacciaio si ritira inesorabile, ma lo show deve continuare, l’industria dello sci non ammette stagioni morte.

La Marmolada è un simbolo delle montagne del Novecento: montagna-confine aspramente contesa nel primo conflitto mondiale, di cui continuano ad emergere a distanza di oltre un secolo ordigni e resti umani, ma anche montagna-playground, anticipatrice del modello di sviluppo del turismo di massa che qui nel 1947 ha visto costruire uno dei primi impianti di risalita in Italia. È per tutti una montagna-icona, la Regina delle Dolomiti, resa celebre per il suo bianco manto, uno dei più studiati ghiacciai delle Alpi a partire delle prime osservazioni a fine Ottocento di uno dei padri della geografia italiana, Giovanni Marinelli, quando la sua estensione era ben altra cosa rispetto a quella attuale: ben 476 ettari nel 1880.

È un’icona che stiamo rapidamente perdendo, una sentinella che continua a lanciare allarmi pressoché inascoltati: da tempo il ghiacciaio fa notizia per il suo accelerato processo di fusione, ben prima che questa assumesse i tratti della tragedia il 3 luglio 2022, con la morte di 11 persone travolte dal distacco di 64.000 tonnellate di ghiaccio e detriti di roccia.
Il ritmo di fusione ha assunto una rapidità inedita negli ultimi decenni: se nel corso del Novecento la riduzione media si attestava sui 2 ettari l’anno, negli ultimi decenni questo valore è raddoppiato e poi triplicato, fino alla contrazione record, mai registrata prima, di 13,8 ettari tra l’estate del 2022 e quella del 2023, che ha portato il ghiacciaio principale per la prima volta sotto i 100 ettari di estensione (98,7 per la precisione).

La sua superficie, dimezzata in precedenza nell’arco di un secolo (dai 412 ettari del 1900 ai 205 del 2000), si è ulteriormente dimezzata nell’arco di soli 25 anni. Un’accelerazione che è utopico immaginare possa fermarsi, se osserviamo la curva di Keeling, il grafico che mostra l’accumulazione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre sulla base di misurazioni effettuate presso l’Osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, dal 1958 ad oggi: una curva che non solo non accenna a scendere, ma anzi continua ad aumentare il suo valore incrementale.

Eppure tutto continua come se niente fosse, si mette la testa sotto la sabbia, o meglio sotto la poca neve rimasta. Il ghiacciaio si ritira inesorabile, ma lo show deve continuare, l’industria dello sci non ammette stagioni morte, e allora ecco dapprima gli sbancamenti di neve dalle zone di accumulo in alta quota, effettuato fino ai primi anni Duemila, poi l’innevamento programmato, e infine la copertura con teli geotermici, che ovviamente non servono a salvare il ghiacciaio, ma una lingua di 40.000 metri quadrati di neve per la pista da sci.
Ma a quale prezzo? Al di là dei costi economici e delle emissioni di CO2 generate per togliere e mettere ogni anno queste coperture, c’è un prezzo ambientale che nessuno ancora riesce a quantificare, e che le prime analisi effettuate sulle acque di fusione del ghiacciaio iniziano a far emergere: i teli a protezione del ghiacciaio non sono biodegradabili: sono composti da fibre di polipropilene, una delle microplastiche più diffuse in ambiente. E infatti microfibre di poche centinaia di micron, dello stesso materiale, sono state rinvenute in un primo campione qualitativo analizzato da Lucio Litti, ricercatore al Dipartimento di Chimica dell’Università di Padova: per quanto risultati preliminari di un monitoraggio limitato ed esplorativo, è la prova che questi teli sono fonte di inquinamento da microplastiche secondarie che dovrà essere meglio quantificata con campionamenti ripetuti.

L’ennesima conferma della nostra pesante impronta sulle alte quote, peraltro già evidenziata da una recente ricerca sui rifiuti nelle Dolomiti condotta da Alberto Lanzavecchia, docente di finanza sostenibile all’Università di Padova, che ha fatto emergere come rifugi e infrastrutture sciistiche sono centri di diffusione di inquinanti, in particolare di materiale plastico.
I teli di cui rimangono lacerti sparsi sul ghiacciaio, come un sudario dolente, si potranno forse sostituire con teli biodegradabili, e si potrà forse finalmente dire che sono teli sostenibili, così potremo continuare a scivolare su quel che resta del manto della Regina morente come se niente fosse, potremo ancora ballare per qualche anno sul Titanic. Ma per quanto ancora? E soprattutto: che senso ha?

L’iniziativa Climbing for Climate, che ogni anno raduna studiosi della Rete delle Università italiane per lo Sviluppo sostenibile in uno dei ghiacciai delle Alpi, quest’anno si ritrova il 7 e l’8 settembre sulla Marmolada per una sorta di last chance tourism, ma per sottolineare la gravità del momento climatico che stiamo vivendo, per dire che l’allarme della “sentinella Marmolada” non può più essere ignorato, a livello locale e a livello globale.
Il Manifesto per un’altra Marmolada (quando il ghiacciaio non ci sarà più, tra pochi anni ormai) si propone di dare un nuovo ruolo alla Regina delle Dolomiti: da montagna-confine a montagna-incontro, da montagna-playground a montagna-laboratorio per azioni efficaci nel contrastare il global warming: una Marmolada fossil free, un esempio e un monito per le generazioni future, un ultimo segno di rispetto – dopo tanti oltraggi – verso la Regina.

di Mauro Varotto