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Non ha un ruolo proattivo. Sì, l’Italia il Paese che ha 200 miliardi del PNRR e tanti capitoli di spesa per ambiente, clima e transizione ecologica in Europa non ha un ruolo proattivo. Secondo il Climate change performance index 2025, il Paese è al 43° posto nel mondo in quanto a politica climatica. La classifica presentata in occasione della conferenza Onu sul clima a Baku, viene stilata periodicamente in base a indici sulle emissioni di gas serra, sulle fonti rinnovabili installate, sui piani clima nazionali. Messi tutti insieme questi indici, la valutazione per l’Italia è uscita media per i gas serra e bassa per energia rinnovabile e politica climatica. Meglio del Belpaese ci sono Sud Africa, Messico, Indonesia. Il Climate conferma che dall’Europa ogni anno vengono immesse in atmosfera l’80% delle emissioni globali. Eppure l’Italia ha impiegato due anni per avere un Piano Clima nazionale. Una prima versione era stata inviata alla Commissione europea nel 2022. Ma nel 2024 il testo è stato rivisto e corretto precisando meglio l’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030. Va bene ? No, dicono gli esperti perché l’obiettivo di – 40,6% è  “ insufficiente, in quanto il Paese avrebbe bisogno di almeno una riduzione del 43,7% entro il 2030 ”.  Ma c’è anche di più. Il Piano ha posticipato in modo regressivo l’eliminazione graduale del carbone dal 2025 al 2029 ”. Il governo, oltre tutto, ha autorizzato nuove capacità di gas da combustibili fossili e il potenziale di energia rinnovabile non è stato raggiunto. Il quadro che esce dalla classifica Climate, in altre parole, non è all’altezza delle aspettative di riduzione dei gas nocivi e del ridisegno delle attività industriali. Alle critiche non sfuggono nemmeno i contributi pubblici che vengono erogati alle fonti fossili. Bisogna ridurli, non c’è dubbio. Ma è qui, a mio parere, che si gioca la partita più complessa per una vera transizione energetica. Gli attori sono ben chiari: banche, istituzioni finanziarie, forze politiche, sindacati, piccole e grandi imprese. L’index Climate in parte lo ammette quando, sempre a proposito dell’Italia sostiene che il Paese segue le posizioni dell’Unione Europea sulla politica climatica, ma poi non svolge un ruolo proattivo. Ora, l’economia italiana è un sistema misto con grandi e piccoli imprenditori, capitali spesso limitati, asimmetrie territoriali, diseconomie, burocrazia. Da dove deve venir fuori la spinta ? Pensare che gli ostacoli cadano tutti come birilli uno dietro l’altro è un miraggio. I dati dimostrano che senza l’aiuto pubblico nessuna seria ipotesi di passaggio alle fonti rinnovabili finora diventa praticabile. Nei prossimi 20 anni lo Stato destinerà alla riconversione produttiva sostenibile circa 35 miliardi di euro, a conferma della difficolta delle piccole e medie imprese di affrontare la transizione green. Le imprese con meno di 10 dipendenti sono l’80% dell’apparato industriale. Sono il motore dell’economia italiana, ma in affanno su tutte le transizioni verso il futuro. E’ vero che il Fondo monetario internazionale calcola in 60 miliardi di euro i sussidi pubblici alle fonti fossili, ma le strutture economiche degli Stati non sono tutte uguali. E l’Italia per avere il richiamato ruolo proattivo dovrebbe poter contare su maggior dinamicità del sistema Paese, meno burocrazia, meno tasse, meno disuguaglianze, spesa pubblica qualificata, più infrastrutture, più credito. Il Paese non è all’anno zero, ma le classifiche spesso sono infide.

di Nunzio Ingiusto