Nella prima cultura politica liberale, dalla rivoluzione industriale a metà Ottocento, la crescita economica generata dal mercato concorrenziale appare l’unica via per migliorare la situazione sociale.
L’esercito industriale di riserva, alimentato dal continuo passaggio della popolazione dalle campagne alle città, mantiene i salari a livello di sopravvivenza, tuttavia il futuro è pronosticato positivo. Nella seconda metà dell’Ottocento si sviluppa la reazione comunista, che vuole la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, mentre la cultura liberale si apre alle istanze sociali, sviluppando forme sempre più allargate di tutela dei lavoratori.
Nel secondo dopoguerra, l’avvento del welfare state sembra dimostrare in modo inconfutabile che davvero l’economia di mercato produce benessere diffuso, oltre che ricchezza complessiva. Il successivo collasso dell’economia sovietica ne rappresenta un’ulteriore conferma e comunque dimostra che non esistono alternative. Ma con la globalizzazione dell’economia, avviata nell’ultimo ventennio del Novecento, si assiste alla divaricazione tra crescita e distribuzione della ricchezza: l’economia mondiale avanza, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, così riducendo le differenze territoriali, ma aumentano anche le disuguaglianze interne, al punto che più volte Papa Francesco le definisce, con una parola inquietante, “intollerabili”.
Diventa perciò generalizzata la consapevolezza che lo sviluppo spontaneo vada corretto pensando alle future generazioni e alla parte più debole della popolazione. La già acquisita sensibilità alla sostenibilità economica e ambientale si allarga quindi alla sostenibilità sociale.
Il problema dell’equità e della mobilità sociale postula soprattutto l’intervento delle istituzioni. Sono esse che possono e devono dettare norme congrue ed attuare efficaci manovre economiche.
Ma non basta tale intervento, per due motivi. Perché la globalizzazione rende più difficili i controlli fiscali e genera quindi una difficoltà di prelievo che frena l’espansione della spesa pubblica; e perché i fenomeni che minano la sostenibilità sociale – la difficoltà di accedere alla scuola e alla cultura digitale, la mancata integrazione degli immigrati, la disoccupazione in età matura, il carente sostegno alla famiglia, la mancanza di figli che sostengano gli anziani, ecc. – assumono oggi una eterogeneità sconosciuta nel passato e non fronteggiabile del tutto con provvedimenti pubblici che tendono inevitabilmente ad essere uniformi e duraturi.
Soccorre, per fortuna, la vasta presenza nella nostra società del terzo settore e in particolare del volontariato. Qui si trovano le caratteristiche funzionali all’odierno contesto: la flessibilità dell’azione, che arriva all’adattamento al caso per caso, il rapido adeguamento al mutare dei bisogni, le prestazioni garantite anche quando non sia possibile il pieno compenso degli operatori, e infine, ultimo ma non minimo, il fattore psicologico che si esprime in una vicinanza affettiva estranea alla comune prestazione professionale.
Una volta tanto, l’Italia è al passo con questa evoluzione mondiale che vede il passaggio dal welfare state alla welfare community. Già la riforma del 2001 ha infatti elevato a rango costituzionale il principio di sussidiarietà (le istituzioni favoriscono le azioni di interesse generale promosse dalla società civile), ha poi riformato il terzo settore e ha infine autorizzato gli enti pubblici a programmare e progettare i propri interventi in collaborazione con enti del terzo settore.
Sia consentito di ricordare che il nuovo approccio è stato pienamente abbracciato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, il cui ultimo bando addirittura impone tale coprogettazione. Siamo infatti convinti che la sostenibilità sociale possa essere assicurata solo attraverso il coinvolgimento di tutti. E a tutti, quindi, buon lavoro.
Gilberto Muraro
Presidente Fondazione Cariparo