E’ difficile non accorgersi come la stragrande maggioranza dei comportamenti umani sia orientata su due bussole, costantemente puntate a un ideale “nord” utilitaristico e rapido. Detto in parole più semplici, guardiamo quasi sempre al risultato da ottenere, cercando di raggiungerlo nel modo più veloce possibile. Niente di sbagliato o scorretto, se non fosse che, calato nei diversi contesti in cui viviamo, così agendo perdiamo per strada altre prospettive, come la qualità del tempo impiegato in un’attività, i piccoli passi che ci portano al suo compimento, il dubbio se ciò che stiamo facendo sia realmente utile o meno. Insomma, ci si dimentica spesso di “guardare fuori dal finestrino”, mentre si viaggia in autobus da un punto X a un punto Y.
“Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre” riassume in modo efficace l’obiettivo del 15° goal dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU. “Vita sulla Terra”, il titolo, che suggerisce una doppia valenza: la vita sul pianeta e la vita sul suolo terrestre, sulla materia terrena, su quel granuloso cumulo marrone di sostanze inorganiche – e non – che sostiene i nostri corpi e ci permette di camminare a zonzo tra queste zolle emerse dagli oceani, sia su suole di gomma che su pneumatici di lunghe catene polimeriche e solfuri di zinco. Un obiettivo, un termine ultimo, una corsa contro il tempo. Il punto centrale verte però sul “come” questo viaggio avviene: proteggendo, ripristinando, favorendo.
Tre gerundi, uno in fila all’altro, che mirano a uno status quo ben preciso: quello di ieri, ovverosia perpetrando il passato, così come l’abbiamo conosciuto – la protezione – riportando il presente a un passato già conosciuto – il ripristino – proiettando il presente in un futuro che preservi le tre dimensioni temporali – il favorire. Da qui, la domanda: è veramente possibile tutto ciò, in una globalizzazione eternamente presente a sé stessa, in continua mutazione verso qualcosa di neanche lontanamente prefigurato? E la soluzione: ritornare a una belle epoque del pianeta naturale, senza introiettare nelle linee guida di uno sviluppo sostenibile le innovazioni tecnologiche che continuano, apparentemente inarrestabili, la loro corsa verso un efficentamento non sempre immaginabile dall’umano?
Si badi bene: la domanda vuole essere una critica costruttiva, non un pretesto per demolire buone intenzioni. Il conflitto etico (ambientale) non si ha mai tra bene e male, bensì tra bene e bene, in modi diversi. L’invito è quello allora a ridiscutere punti e obiettivi rimasti relegati al passato – dove sono stati redatti, all’alba della COP di Parigi, anno domini 2015 – non per riportare il mondo a una situazione ambientale pre-industriale, bensì per concretizzare il futuro tecnologico all’interno di un presente dove vengono calcolati i costi ambientali, le perdite, il riutilizzo di scarti e di inutilità in generale. Insomma è fondamentale considerare non solo l’obiettivo, ma soprattutto il viaggio che ci porta da qui a lì.
La questione tecnologica è ancora tutta da affrontare. Un esempio attuale e vicino a noi è l’Intelligenza artificiale, uno strumento il cui utilizzo dipende ancora, in questo momento, dall’uomo. Il punto non è “come utilizzare la IA nella nostra quotidianità”, ma piuttosto “come usare la IA” per rendere il mondo migliore? Quali sono le implicazioni del suo utilizzo? Quanto possiamo demandare, delle peculiarità dell’essere umano, a qualcosa di non-umano? Quali i costi, e quali i benefici? Chi ne può trarre vantaggio? E conseguentemente: come l’ecosistema Terra reagisce, e reagirà, all’uso e all’utilizzo della IA? Dobbiamo dunque guardare allo spazio, che intercorre tra i punti X e Y, per capire con quale qualità fare uso di un oggetto.
L’esempio ci porta a considerare a un approccio olistico rispetto alle nostre vite e a come agiamo. Riportare la molteplicità all’unità di una sola Vita, quella collettiva, che vive sulla Terra. Un enorme “design dei sistemi” dove ogni organismo, naturale e artificiale, è e diventa uno schema organizzato che coopera con l’altro in armonia (e a tal proposito, Tommaso Morbiato, professore di SID – Scuola Italiana Design, ha speso parole sagge nell’intervista rilasciata nel video che vi riportiamo). L’ultima provocazione (sempre costruttiva) ci orienta verso una domanda: quanto l’ecosistema terrestre può giovarsi dalla forza artificiale dell’essere umano?
Una specifica doverosa: spesso facciamo uso di un linguaggio che ci porta, volenti o nolenti, ad essere colpevoli difensori di un pianeta che stiamo portando alla distruzione. Questa è solo una parte di una Verità, ben più complessa. Un’altra prospettiva – piuttosto banale, peraltro – racconta che siamo colpevoli e difensori di noi stessi; la Terra non fa altro che cercare un proprio, nuovo, equilibrio. Restituisce l’energia calorifera che le abbiamo sottratto o riversato addosso. Si riprende con la forza lo spazio che l’uomo ha conquistato. È l’unico risvolto antropologico e antropocentrico che dovremmo continuare a tenere in considerazione: la sostenibilità ambientale serve a noi come umanità, non al pianeta Terra in quanto tale. Se, per assurdo, l’uomo improvvisamente sparisse dal mondo, l’ambiente ci metterebbe un nulla a ricrearsi più forte di prima. E poi sì, dovremmo anche ricordarci delle nostre responsabilità passate, presenti e future verso gli altri organismi, gli altri sistemi animali, vegetali e inorganici. Difesa della Terra, ma soprattutto difesa della nostra specie. Le parole d’ordine sono “integrazione e inclusione”, senza fretta né rincorsa a obiettivi passati. Di nuovo, una diversa qualità della vita, olistica e armonica: solo così potremo ripensare a una nuova, e originale, Vita sulla Terra.
Se volete approfondire l’argomento : guardate questo video
di Damiano Martin