Un altro mondo è possibile? Dai Caraibi arriva la richiesta di un nuovo sistema di finanza globale, che permetta ai Paesi più fragili di non farsi travolgere dalla crisi. Sarà uno dei punti fondamentali della Conferenza Onu di Dubai. «La questione non è più se sia il caso di adottare soluzioni per ridurre gli squilibri globali. Ma è come farlo», dice il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni
C’è una donna carismatica a guidare la richiesta dei Paesi del Sud del mondo per una nuova finanza climatica globale, che sarà uno dei temi al centro della prossima Conferenza Onu per il Clima, la Cop 28 di Dubai (30 novembre – 12 dicembre). Mia Mottley, premier di Barbados, ha lanciato la Bridgetown Initiative, dal nome della capitale dello Stato caraibico, uno dei più piccoli e poveri del pianeta, tra i più vulnerabili agli eventi estremi come gli uragani. E le maggiori istituzioni finanziarie globali le stanno dando ascolto.
Al Summit for a New Global Financing Pact di Parigi, voluto dal presidente francese Emmanuel Macron lo scorso giugno, Mottley ha dichiarato: «Il mondo non può continuare a basarsi sul vecchio ordine imperialista, che non considera i Paesi e la gente, non li ascolta. Stiamo vivendo un momento epocale per la storia dell’umanità. La crisi climatica, l’insicurezza alimentare e la scarsa disponibilità di acqua pulita mettono a rischio le nostre società come le conosciamo. Ora, non solo bisogna fare la cosa giusta, ma bisogna farla in tempo».
Una Bretton Woods del clima
Mottley paragona il contesto attuale con quello della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1944 gli Accordi di Bretton Woods hanno posto le basi delle istituzioni finanziarie come le conosciamo, disegnate per la ricostruzione dei Paesi industrializzati. Per la premier caraibica, adesso serve un nuovo sistema finanziario che consenta agli Stati più fragili di far fronte alle sfide del cambiamento climatico. Infatti, per i Paesi poveri l’accesso al credito avviene a tassi molto più elevati che per i Paesi ricchi, e i progetti per la transizione ecologica fattibili al Nord diventano impossibili al Sud. «Cambiare è un dovere morale, perché il mondo ricco ha usato le risorse naturali del pianeta ed è responsabile della gravità della situazione in cui ci troviamo. Ottant’anni fa Barbados, come Stato, non esisteva nemmeno. Ma è anche un’urgenza pratica, perché la vita come la conosciamo possa continuare per i nostri figli e nipoti, e per noi», ha aggiunto, parlando alla Bbc nel programma The Climate Question.
I meriti della Bridgetown Iniative
«La Bridgetown Initiative ha il merito di mettere insieme alcune soluzioni tecniche che già esistevano, ma erano sparse. La finanza climatica è uno dei punti fondamentali del negoziato. La questione non è più se sia il caso di mettere in campo soluzioni che puntino a ridurre gli squilibri. Ma è come farlo», spiega Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano, docente e autore di diversi libri tra cui Effetto serra, effetto guerra, con Antonello Pasini, per Chiarelettere, e il recente Vola Italia, Edizioni Città Nuova.
«Tutti ormai hanno capito che, in un sistema interconnesso, se si lascia che intere comunità vadano al collasso, i costi riguarderanno anche i Paesi ricchi, in termini di flussi migratori, guerre, perdita di investimenti. Lo slogan dell’Agenda Onu 2030: Leave no one behind, infatti, significa non lasciare indietro i più fragili. Ma non è solo per una ragione etica, è per un motivo funzionale. Se tutti vogliamo salvarci, dobbiamo innanzitutto prenderci cura dell’anello più debole».
In realtà un fondo, il Green Climate Fund, esiste e c’è l’impegno a finanziarlo per 100 miliardi di dollari all’anno, ma siamo ben lontani dal raggiungere quella cifra. Non solo, in un recente report, Oxfam denuncia che anche le somme dichiarate sono molto superiori agli aiuti reali. Infatti, più della metà di tutti i finanziamenti per l’adattamento viene erogata sotto forma di prestiti, aumentando il peso del debito estero in economie già fragili e indebitate. In base al report della ong britannica, la Francia dà ben il 92% degli aiuti bilaterali sul clima in questa forma, l’Austria il 72%, il Giappone il 90%, la Spagna l’89%. Nel 2019-20, il 90% di tutti i finanziamenti per il clima forniti dalle banche multilaterali di sviluppo è stato erogato secondo queste modalità.
I costi del clima per i poveri
Per Oxfam, altra fonte di preoccupazione è che i finanziamenti per il capitolo Loss and Damage, le perdite e i danni, non abbiano ancora una collocazione certa nell’architettura internazionale della finanza climatica. Le stime indicano che i Paesi più poveri potrebbero dover sostenere costi fino a 580 miliardi di dollari all’anno entro il 2030. Da qui l’appello della ong per un aumento effettivo e consistente degli aiuti essenziali ad aiutare i Paesi più poveri a mitigare gli effetti della crisi climatica, stanziandoli sotto forma di sovvenzioni e non come prestiti.
«Su perdite e danni, il negoziato oscilla tra due posizioni», continua Mastrojeni. «Una, che possiamo definire “colpevolista”, per cui è giusto che i Paesi ricchi risarciscano i più poveri, mentre l’altra, che potremmo chiamare “efficientista”, va verso la scelta che funziona meglio, secondo una logica non necessariamente di riparazione. La sfida, alla Cop 28, sarà trovare un equilibrio tra le due posizioni».
Ma, al di là delle dinamiche dei negoziati, per Mastrojeni le possibilità di un vero cambio di rotta vanno viste nel mercato: «La finanza si sta allineando verso la sostenibilità perché si è visto che nell’economia reale funziona meglio. Questo significa che tutto il reticolo dell’investimento va, per ragioni non tanto politiche o climatiche, ma puramente economiche, a tutelare sempre più i territori, nei Paesi più avanzati, ma anche nei più fragili».