LA GUERRA FUORI [di Niccolò Locatelli]
Questa settimana sono diventate più evidenti le conseguenze della guerra d’Ucraina fuori dall’Ucraina.
I rapporti economici – oltre che quelli politici – tra Occidente e Russia vanno verso la rottura; fanno eccezione per ora gli idrocarburi ma non altre materie prime; Putin ha deciso di proibire alcuni commerci, si attende la lista del Cremlino. Con la nuova tornata di restrizioni e la revoca della clausola della nazione più favorita (quest’ultima concordata con i paesi dell’Unione Europea e il G7) annunciate da Biden, Washington punta a indebolire Mosca nel medio periodo.
Non si ha notizia di negoziati pubblici che vedano direttamente coinvolti gli Stati Uniti; l’obiettivo ultimo dell’invasione russa, ossia la revisione dell’equilibrio di potenza in Europa, è ancora lontano. Gli Usa per il momento osservano.
L’annuncio a sorpresa della Banca Centrale Europea, che da maggio rallenterà l’acquisto di titoli pubblici e privati, implica la convizione che l’inflazione “importata” dal conflitto sia destinata ad essere un problema maggiore della bassa crescita legata al Covid-19. L’impatto immediato sui nostri buoni del Tesoro ci ricorda la nostra condizione di debolezza.
L’emigrazione di oltre due milioni di cittadini ucraini verso l’Unione Europea in appena due settimane costituisce la maggior emergenza migratoria dai tempi della seconda guerra mondiale. I paesi che ne stanno assorbendo la maggioranza, a partire da Polonia e Ungheria, chiederanno presto agli altri membri dell’Ue di pagare il conto. Dato il contesto economico-finanzario non ottimale e le recenti tensioni tra Varsavia-Budapest e Bruxelles, l’iniziale unità comunitaria contro l’invasione russa verrà messa alla prova.
IL FRONTE DIPLOMATICO [di Mauro de Bonis]
Non c’era da aspettarsi molto dall’incontro tra il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba in Turchia.
Il diplomatico di Mosca, in carica dal 2004 e annoverato tra i “meno convinti” dell’opzione militare decisa dal Cremlino, non aveva il mandato per procedere coi negoziati ed è sembrato molto a disagio anche durante la conferenza stampa.
Il quotidiano russo Nezavisimaja Gazeta lo descrive come “visibilmente nervoso” mentre ripete i motivi che giustificano l’attacco della Federazione Russa all’Ucraina e nota come abbia utilizzato di nuovo il termine “denazificazione”, scomparso per giorni dal vocabolario della leadership russa.
Segnale di una lezione mandata a memoria, che non ha tralasciato uno dei capisaldi del racconto putiniano: quello della difesa a oltranza del russkij mir, il mondo russo. Universo composto dai circa 20 milioni di compatrioti rimasti fuori dai confini russi dopo la caduta dell’Unione Sovietica, custodi della storia e della cultura della grande madre Russia. E soprattutto della lingua, strumento evocato dal ministro Lavrov che ne chiede rispetto e salvaguardia in Ucraina.
Messaggio neanche troppo cifrato per rassicurare russi e russofoni presenti nel paese assediato che il Cremlino non è intenzionato ad abbandonarli, così come intende mantenere compatto il mondo russo dentro e fuori la Federazione. Come da direttive del presidente Putin, che nel novembre scorso esortava l’intera diplomazia russa a rafforzare i legami con la diaspora per tutelarne interessi e identità culturale.
Dunque proteggere l’intera comunità da un Occidente ostile e privo di valori, e considerare ogni tentativo di incrinarne la compattezza come un attacco alla Russia e al suo popolo.
IL FRONTE MILITARE [di Mirko Mussetti]
La seconda settimana di guerra in Ucraina ha visto la consistente recrudescenza delle operazioni belliche e la lenta avanzata della Russia. La resistenza tiene, ma l’aggressore non arranca. L’invasione moscovita è in una fase di posizionamento, non ancora di logoramento.
Ritenere che le Forze armate della Russia abbiano fallito i propri obiettivi a soli quindici giorni dall’inizio del conflitto è un abbaglio. Le cosiddette “guerre lampo” non risultano mai così repentine. Il caso della guerra dei Sei giorni è un unicum, ma si concentrò su un fazzoletto di terra poco esteso. Altro caso di conflitto spacciato per blitzkrieg è l’invasione dell’Iraq nel 2003 a opera di una coalizione guidata dagli Stati Uniti: una guerra asimmetrica che si concluse formalmente dopo un mese e 11 giorni.
I russi affrontano un esercito armato e addestrato negli ultimi otto anni dalle Forze armate occidentali. Essendo l’Ucraina priva di elementi orografici difensivi, nonostante gli intoppi logistici le truppe meccanizzate russe riescono a muoversi e occupare con relativa semplicità le campagne, costringendo l’esercito ucraino alla difesa dei centri urbani. Obiettivo di Mosca è tenere assediate le città per un periodo sufficientemente lungo da indurre i militari accerchiati e senza rifornimenti alla resa o i civili stremati all’evacuazione attraverso i corridoi umanitari.
Lo scenario della difesa cittadina e della battaglia senza quartiere è stato intuito e implementato dagli ucraini, tanto da diramare fin da subito alla popolazione le istruzioni su come produrre bombe Molotov. Invitando i cittadini a utilizzare il carburante per il confezionamento di ordigni rudimentali poco utili a fini bellici, il dicastero della Difesa ha disincentivato la fuga automobilistica dei civili; i quali ora sono parte cobelligerante del conflitto, non protetta dalla Convenzione di Ginevra.
La raccolta di testimonianze audiovisive sulle atrocità del conflitto è copiosa da parte ucraina, mentre è praticamente nulla da parte russa, che teme la geolocalizzazione. Anche questo spiega la disfatta moscovita in termini propagandistici, a fronte di bollettini di guerra ucraini smaccatamente esagerati; Washington parla di 2-4 mila caduti fra i russi, Kiev di oltre 12 mila.
La tattica dello strangolamento delle città pare al momento premiare i russi più sul fronte meridionale “russofono”, strategicamente preminente, che su quello settentrionale “ucrainofono”, politicamente significativo. Il drammatico caso della città portuale di Mariupol sul Mar d’Azov è dovuto non tanto alla resistenza dei civili – che vorrebbero imboccare i corridoi umanitari – ma ai gruppi paramilitari banderisti ivi asserragliati (Aidar, Pravy Sektor, Reggimento Azov). Se fatti prigionieri, diverrebbero trofeo di guerra per il presidente russo Vladimir Putin, che sul concetto di «denazificazione» ha imperniato la propria propaganda bellica a uso interno.
All’orizzonte si staglia la battaglia per Odessa sul Mar Nero, città “russa” troppo simbolica per poter essere ridotta in macerie.
EXTRA-CONFLITTO: LA COREA DEL PRESIDENTE YOON [di Marco Milani]
Le elezioni presidenziali del 9 marzo in Corea del Sud hanno sancito la vittoria del candidato conservatore Yoon Suk-yeol sullo sfidante democratico Lee Jae-myung con il margine più risicato di sempre nella storia nazionale (+0,73%). Oltre a confermare l’immagine di un paese fortemente spaccato e polarizzato secondo linee regionali, demografiche e di genere, l’elezione di Yoon segna il ritorno al potere dei conservatori dopo la fine prematura e disonorevole del mandato di Park Geun-hye (2017).
Il cambio al vertice porterà con ogni probabilità a un riorientamento internazionale della Corea del Sud. La questione centrale rimane quella delle relazioni con il Nord; l’amministrazione Moon aveva fatto della riconciliazione e del dialogo intercoreano la cifra significativa del proprio mandato, raggiungendo importanti progressi – i summit del 2018 e numerose attività di cooperazione – entrati però in stallo nel 2019. Il presidente-eletto ha messo da subito in chiaro che l’obiettivo principale di un eventuale dialogo con Pyongyang deve essere la completa denuclearizzazione del regime di Kim Jong-un, non il miglioramento delle relazioni fra le due Coree. Secondo Yoon, una posizione più intransigente riallineerebbe le strategie di Seoul e Washington. A partire dall’intensificazione delle esercitazioni militari congiunte e dal potenziale dispiegamento in Corea del Sud di batterie antimissile Thaad.
Un ulteriore effetto potrebbe verificarsi nei rapporti con la Cina. Se l’amministrazione Moon ha preferito mantenere un ruolo defilato nella crescente rivalità fra le due potenze, il nuovo presidente ha chiaramente affermato che la Corea del Sud dovrebbe partecipare attivamente alle iniziative guidate dagli Stati Uniti – come il Quad – e attivare un maggior coordinamento trilaterale sulla sicurezza con Washington e Tokyo. Dunque accantonando le tensioni sulle dispute territoriali e le controversie legate al passato coloniale del Giappone nella penisola.
In pieno spirito conservatore, Yoon vorrà prendere le distanze dall’eredità di Moon. L’alleanza con gli Stati Uniti e la linea dura verso la Corea del Nord devono rimanere i capisaldi della politica di Seoul.