Sono passati trentatré anni da quando James Hansen, all’epoca scienziato della Nasa, testimoniò davanti al congresso degli Stati Uniti che, con il 99% di probabilità, era possibile affermare che l’aumento delle temperature terrestri fosse causato dall’uomo. Sono passati ventinove anni da quando, al summit per la terra di Rio 1992, Severn Cullis-Suzuki, una giovane attivista nippo-canadese di soli 12 anni, chiese a tutte le delegazioni diplomatiche di unirsi, non solo come governi, ma in quanto madri e padri, di prendere atto del modo scellerato che il genere umano aveva di rapportarsi con l’ambiente. Tra scrosci di applausi, non una voce dissentì e tutti concordarono che alcuni provvedimenti erano necessari.
Qualche giorno fa il documento Ipcc dell’Onu ha ripetuto, per l’ennesima volta, che il nostro modo di vivere non è più sostenibile, aggiungendo rispetto agli ultimi report, una frase: se non agiamo adesso, la prossima nota informerà che avremo raggiunto il punto di non ritorno e che sarà troppo tardi per tornare indietro. Perché la crisi climatica è diventata un tema così contraddittorio, se esiste la consapevolezza condivisa che la prevenzione è più efficace? Le leggi della gravità non cambiano a seconda del partito politico dei ricercatori cosi come le funzioni algebriche non modificano il risultato perché ci si trova in un continente diverso.
Si tratta solo di un problema di prospettive. Si assiste, erroneamente, a dispute fideistiche, come se non esistessero solide basi scientifiche che chiaramente dimostrano il cambiamento climatico. È un tema dibattuto perché negli anni ha subìto una connotazione politica, perché è ed è stato usato come strumento di consenso e non è stato trattato tenendo conto delle differenti sensibilità geografiche. Parlare di crisi climatica nella piccola nazione del Kiribati, la prima ad aver già firmato accordi per un’emigrazione di massa del suo popolo a causa dell’innalzamento del livello del mare, è diverso dal parlarne in Trentino.
Quando un problema viene percepito come lontano, si tende a non agire per via della fallacia dell’ottimismo: le cose negative accadono sempre in tempi e luoghi distanti. E più si osserva qualcosa di negativo da lontano, più questa fallacia viene rafforzata. Qui però si parla di un mutamento globale ed è molto ingenuo pensare che le ripercussioni non lo siano altrettanto. Ecco perché partendo dallo scioglimento dei ghiacciai e dallo sbiancamento della barriera corallina, fino alle quotidiane frane, esondazioni e piogge torrenziali, il dramma interessa il pianeta.
In termini numerici questo diviene evidente quando si guardano le ricerche che affrontano il tema della percezione svolte nelle singole nazioni. Negli Stati Uniti, le ricerche dello Yale Program on Climate Change Communication mostrano come il 72% degli intervistati creda che sia in corso un cambiamento climatico, ma questa percentuale scende al 57% quando si chiede se questo sia causato dall’attività umana. Sebbene il 55% degli americani creda che gli scienziati, nell’insieme, concordino sul fatto che il cambiamento climatico stia accadendo, il 25% è fortemente in disaccordo con questa affermazione.
Interessante anche notare che solo il 74% sente parlare di cambiamento climatico solo una volta al mese o meno. Gli Usa però non sono i soli ad avere questa percezione discontinua e parziale: uno studio sul tema svolto da Ipsos del 2021 mostra come la consapevolezza degli impatti del cambiamento climatico sia in genere molto bassa e che, in particolare, solo il 4% degli intervistati è consapevole che gli ultimi sei anni siano stati i più caldi mai registrati.
Ogni comunità percepisce la crisi climatica a suo modo, talvolta chiudendo uno o due occhi per non entrare in dissonanza cognitiva, per non dover accettare la necessità di una svolta scomoda o ammettere di aver sbagliato. Ci sono però, per fortuna, istanze provenienti da realtà locali che si uniscono e agiscono globalmente: è il caso dei gruppi di attivismo climatico. Voci organizzate e meno organizzate, giovani e meno giovani, che ribadiscono che siamo tutti sulla stessa barca.
Gruppi grandi come Fridays For Future, Extinction Rebellion e molti altri più piccoli, portano in piazza migliaia di persone nel mondo, per attirare l’attenzione del pubblico, delle comunità e dei singoli sul tema della crisi ambientale. Il loro modo di comunicare, moderato o urlato, è comunque un chiaro e diretto allarme che riprende quello già applaudito a Rio 1992: bisogna fare qualcosa prima che sia troppo tardi.
Antonio Nucci
Dottorando in comunicazione del cambiamento climatico presso l’Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) dell’Università della Svizzera italiana di Lugano. Collabora regolarmente con l’Osservatorio europeo di giornalismo (EJO)
Fonte: Newsletter AmericaCina del Corriere della Sera il 12/08/2021