«Io che non vivo più di un’ora senza te», cantava Pino Donaggio e quando si parla di dati questo ritornello vale per Chat GPT e i suoi fratelli, grandi e piccoli. Gli algoritmi di intelligenza artificiale senza dati che li alimentano non sono nulla.
L’accelerazione
L’intelligenza artificiale è studiata dagli anni ‘50, ma solo ora viviamo l’inizio della nuova era delle macchine senzienti. Questo perché oggi gli algoritmi sono alimentanti da una marea di dati e sostenuti da una grande capacità di calcolo e quindi apprendono, si evolvono e cominciano a fare ragionamenti logici. Sono i dati, o meglio una base di dati sulla quale si addestra l’intelligenza artificiale a permettere all’algoritmo di riconoscere forme, pattern linguistici e armonie.(È un po’ come immaginare un bambino che, quando nasce, non sa parlare e poi comincia ad apprendere e a memorizzare).
«I dati sono il nuovo petrolio», «I big data cambieranno tutto», quante volte abbiamo sentito ripetere queste frasi negli ultimi anni? E quante volte ci siamo chiesti a che cosa ci si riferiscono? Ora con l’accelerazione dell’intelligenza artificiale è tutto più chiaro. Eppure, dall’arrivo di Internet, innovazione, tecnologia e i dati pervadono ogni singolo aspetto della nostra vita. Ed è forse proprio questo che ci rende meno attenti. Li diamo per scontati. Come scontato pensiamo sia il loro controllo. Ma l’attenzione con la quale sono state accolte e discusse le iniziative dell’Europa sul fronte delle regole, da quelle sulla privacy a quella su mercati e servizi tecnologici, dà il polso quanto di scontato ci sia ben poco.
La svolta
Ma di chi sono i dati? Chi li può usare? Si tratta di questioni complesse alle quali l’Unione Europea sta cercando da anni dare una risposta organica. Un punto di svolta decisivo è avvenuto il 23 giugno scorso. A conclusione di un percorso avviato nel 2020, è stato raggiunto l’accordo sul regolamento europeo chiamato Data Act. Si tratta di una legge rivoluzionaria che completa il quadro regolamentare su come i dati si possono scambiare e utilizzare.
Prima di parlare delle novità del Data Act occorre fare una premessa. Originariamente la politica europea è iniziata con l’obiettivo di promuovere «open data», ovvero di rendere disponibili a tutti i dati generati dalle amministrazioni pubbliche. Così è nata la prima direttiva Open Data, i cui punti sono stati successivamente messi a fuoco dalla seconda e dalla terza. Secondo la filosofia degli open data, se un generatore di dati – ad esempio un satellite o un macchinario per la raccolta dei rifiuti – è stato finanziato pubblicamente, i dati prodotti devono essere messi a disposizione di chiunque. Questo tipo di dati crea un’esternalità positiva per la collettività.
La politica dei dati aperti
A questo ha contribuito l’avvento di Internet con l’apertura delle basi di dati a disposizione, dando vita a un enorme movimento di innovazione. Basti pensare, per esempio, ai dati che vengono dai satelliti europei del programma Copernicus per l’osservazione della Terra; oppure a quanto progresso è stato raggiunto nella produzione di traduzioni e modelli linguistici nel contesto europeo: grazie alla diversità linguistica che la caratterizza, l’Unione europea vanta una delle basi di dati più vaste al mondo. La messa a disposizione in maniera aperta di questi dati rappresenta la base di motori commerciali e fonti di informazione, che stanno attualmente realizzando l’intelligenza artificiale.
Ma non va dimenticato che la politica dei dati aperti è sì un bene per tutto il mondo, purché si dia la possibilità di accesso a tutti, in modo gratuito. È la nostra esperienza quotidiana con le mappe con immagini satellitari, con le app che ci danno la posizione degli autobus o degli aerei oppure delle immagini meteo. I giganti del web stanno traendo grandi benefici economici dagli open data, il Data Act si occupa di introdurre una più equa distribuzione del valore dei dati.
Il regolamento
Il provvedimento si occupa in primis del rapporto fra due soggetti: il produttore e l’utente. Le macchine moderne (intese in senso lato come prodotto che genera utilità) sono un tutt’uno con dati. Se l’utente non ha il controllo dei dati, ha acquistato solo un’oggetto quasi inutilizzabile. Si pensi al produttore di una macchina agricola di nuova generazione e l’agricoltore che l’ha acquistata. La legge stabilisce che produttore e utente hanno un diritto condiviso nell’utilizzo dei dati che la macchina genera. L’agricoltore non solo acquisisce il possesso della macchina ma anche la facoltà di utilizzare i suoi dati per ottimizzare la produzione o semplicemente per la manutenzione da parte di un’azienda diversa da quella produttrice.
Questo vale per tutto quello che è connesso, dagli utensili industriali alle auto connesse o agli elettrodomestici intelligenti.L’utente 2.0 non utilizza solo la macchina ma acquista anche il diritto dell’utilizzo dei dati. Il produttore conserva il diritto all’utilizzo di tutti dati necessari all’aggiornamento e miglioramento del prodotto. Il diritto condiviso introdotto dal Data Act è una soluzione elegante che supera l’annosa antinomia (e forse irrisolvibile come il paradosso di Russell) relativa a chi, fra produttore e acquirente, debba essere attribuita la proprietà dei dati generati dalle macchine.
Limiti
La condivisione deve però trovare il suo limite nella protezione dei dati. Perché parliamo e dobbiamo parlare di protezione? Da che cosa e perché li dobbiamo difendere? Si deve partire dal fatto che si tratta di trovare un equilibrio molto delicato. La combinazione tra innovazione, equità, integrità della persona, segreti industriali non è semplice. Il Data Act sancisce il diritto del produttore di azionare un «freno di emergenza» quando la richieste di condivisione dei dati con l’utente mettono a serio rischio il know-how aziendale con un conseguente rilevante danno patrimoniale.
Un’altra possibilità che ha il produttore è di impedire che la condivisione di dati metta a rischio la sicurezza o l’incolumità delle cose e persone. Si tratta di casi estremi che non fanno venire meno il diritto dell’utente di poter usufruire dei dati. Per evitare gli abusi da parte dei produttori, nel Data Act sono previsti meccanismi di risoluzione delle controversie e persino sanzioni. Viene anche rafforzata la protezione dei dati personali garantita dalle norme europee ed in particolare dal GDPR. In particolare il Data Act vuole evitare che dati privati personali sul cloud – o non personali però sensibili, come i segreti industriali – vadano in giro per il mondo o vengano intercettati da chi produce innovazione con il puro scopo di profitto a discapito della privacy e dei brevetti industriali.
Sulla nuvola
Un altro aspetto rilevante del Data Act è la cosiddetta portabilità dei servizi cloud computing. Conosciamo da anni i benefici della portabilità del numero quando si cambia gestore di telecomunicazioni. La portabilità del numero, che è uno dei capisaldi delle regole europee sulla concorrenza nei servizi di telecomunicazioni, ha aperto le porte a nuovi gestori e offerto a tutti noi la possibilità di scegliere la migliore offerta senza l’incubo di perdere il proprio numero di telefono (che è anche l’identificativo per servizi come WhatsApp o Signal).
Il Data Act ora impone la stessa cosa a chi offre servizi di cloud computing in Europa. In Italia, sempre più aziende grandi e piccole, studi professionali o altri imprenditori si affidano a fornitori di cloud computing (per la conservazione dei dati, software, soluzioni per l’azienda). L’Italia è sopra la media europea per l’utilizzo di questo servizio, sempre più al centro dell’organizzazione del lavoro e quindi ‘bene della vita’ per tante aziende. Al momento la propensione, da parte delle imprese, di cambiare gestore cloud per approfittare di un’offerta migliore rimane bassa perché viene spesso associata al potenziale rischio di perdita di dati o continuità aziendale.
Verso una maggiore concorrenza
C’è però un altro rischio: quello del lock-in ovvero di rimanere prigionieri di un fornitore cloud o di un offerta non competitiva. La portabilità del cloud, come è avvenuto nelle telecomunicazioni, aprirà il mercato ad una maggiore concorrenza e dal lato dell’offerta darà alle aziende cloud più innovative, ma magari più piccole (ci sono aziende cloud italiane molto dinamiche), la possibilità di poter offrire servizi in concorrenza con le grandi aziende multinazionali operanti nel settore.
Questo a tutto vantaggio degli utenti del cloud (ovvero, come si è detto, di tutto il comparto produttivo del Paese) che avranno modo di scegliere servizi migliori a prezzi più bassi. Certo la portabilità del cloud avrà necessità di un periodo di rodaggio per essere completamente efficace (è avvenuta la stessa cosa per la portabilità del numero) ma il diritto ora è sancito dalle regole europee ed il percorso verso una maggiore concorrenza è avviato.
Di Daniele Manca e Roberto Viola