Studiare lingue diverse permette, tra le noiose regole grammaticali, il divertimento di saltare da un lemma all’altro, per trovare assonanze di suoni e/o di significati. Meglio se le lingue in questione sono più o meno vicine allo stesso ceppo linguistico. Per esempio: stiracchiando una traduzione spagnola di un focoso “accendi la lotta”, salta fuori che la frase corrispondente sia: “enciendes la lucha”. Il che fa sorridere, poiché per un italofono sembra più un invito a illuminare una stanza, piuttosto che prepararsi a un singolar tenzone. In entrambi i casi, tuttavia, è prevista un’azione, una parte attiva: una action, per infilarci dentro anche dell’anglofonia.
Di lucha, di lotta e di action: tra i 17 goal dell’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile, il numero 13 – infausto numero della simbologia cristiana, un po’ meno per tutte le altre – è centrale negli obiettivi prefissati per quanto riguarda, appunto, il concetto di sostenibilità. “Lotta contro il cambiamento climatico”, ovvero: Davide contro Golia. L’essere umano contro Madre Natura. Il figlio che si ribella per imporsi sulla sua genesi. Come detto, il goal è centrale: senza incremento delle temperature climatiche non ci sarebbe neanche la lotta, non dovremmo preoccuparci della stragrande maggioranza dei problemi, come la ricerca di energie rinnovabili, di consumi responsabili, della vita delle altre specie.
Ma quanto possiamo, o dobbiamo, effettivamente “lottare” contro il cambiamento climatico? Di che tipo di scontro si tratta, quello tra umanità e Natura? Dobbiamo veramente combattere, o sarebbe auspicabile un approccio, e un modo di porsi, diverso rispetto all’ambiente che ci circonda?
Che ci sia bisogno di un’azione diversa rispetto a quelle portate avanti fino a oggi nei confronti dell’ambiente, delle risorse e delle comunità, è innegabile. Secondo i dati ONU, dal 1880 al 2012 la temperatura media globale è aumentata di 0,85°C. Ciò ha comportato, dal 1981, una perdita annua di 40 milioni di tonnellate coltivazioni principali, come mais e grano. Dal 1901 al 2010 il livello dei mari si è alzato di 19 cm; entro il 2065 potrebbe raggiungere i 24-30 cm, che passerebbero a 40-63 cm nel 2100. Dal 1979, il pianeta ha perso 1,07 milioni di km2 di ghiaccio a ogni decade. Causa principale di tutto ciò: le emissioni di CO2, aumentate del 50% dal 1990, con un incremento triplicato tra il 2000 e il 2010 rispetto ai tre decenni precedenti.
Sui grandi tavoli della politica internazionale si tratta e si discute, per capire come affrontare il cambiamento. Le vie diplomatiche ed economiche sono principalmente tre: adottare politiche di mitigazione che agiscono sul lungo periodo, andando a modificare la struttura portante del rapporto causa-conseguenza nei confronti del clima. Scegliere soluzioni di adattamento climatico, che nel breve periodo siano in grado di prevedere l’andamento ambientale, per trovare delle contromisure che si adeguino agli effetti. Infine, scegliere la politica che predilige l’istituzione di fondi economici loss&damage: sostanzialmente, stanziare somme ingenti di denaro per intervenire laddove il disastro climatico è già avvenuto.
Ognuna delle tre opzioni d’intervento ha la propria ragione d’essere e i propri punti deboli. Tuttavia, sono collegate dallo stesso, identico, motivo economico: la limitatezza delle risorse disponibili (in termine di denaro) e il dover decidere la loro ripartizione più equa, secondo le diverse istanze. Puntare sulla mitigazione dei fenomeni climatici significa pensare e sperare che vi sia modo di ritornare a una situazione pre-contemporanea. Adattarsi, invece, vuol dire accettare il climate change, a prescindere dalle cause. Un fondo economico condiviso, infine, intende che il problema va affrontato quando avviene, in un misto tra rassegnazione e ignoranza.
Per una problematica complessa come il cambiamento climatico non esiste un’unica soluzione: tutte le tre sopra esposte si spalleggiano, nel tentativo di traghettare alla sopravvivenza il maggior numero di persone, e specie, possibili. Bisognerebbe tuttavia spostare gli occhi dagli obiettivi e dai motivi tradizionali – la lotta al cambiamento, il salvataggio del pianeta – per trovare ragioni più profonde a questa presunta “lotta” contro qualcuno o qualcosa. Perché, se è vero che una delle cause dell’incremento delle temperature è l’essere umano, è quindi ragionevole pensare che l’uomo debba combattere contro sé stesso, piuttosto che contro il clima, le emissioni o la Natura. Possiamo dunque parlare ancora di lotta, se ci troviamo nella posizione di combattere noi stessi?
Ha più senso “accendere una luce” piuttosto, o incendiare una lotta. E il proverbiale “lume della ragione” si accende non aspettando che vi sia un tavolo internazionale pronto a risolvere il problema, o una ricerca decisiva nello scoprire una nuova fonte di energia alternativa, infinita e facilmente sostituibile ai carbon-fossili. Accendere la luce significa capire che la lotta è contro le nostre abitudini, nell’uso dell’auto, in ciò che consumiamo, nella scelta tra un prodotto stagionale e nostrano piuttosto di uno importato e fuori stagione. Accendere la luce significa slegarsi da una dinamica del desiderio assottigliata al tutto-e-subito, senza nessuna attesa, senza alcuna fatica, per abbracciare l’idea che serva del tempo: per progettare, per praticare, per gustare.
Il cambiamento climatico si è generato nel tempo passato, e avrà bisogno del tempo futuro per risolversi. In quest’ottica temporale è necessario quindi mitigare, non tanto per ridurre in modo definitivo gli effetti quanto per diminuire la produzione di scorie e rifiuti, dannosi per l’ambiente e per l’uomo. Ma è pur necessario adattarsi, perché l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e la Natura, lo si voglia o meno, è ancora la forza in gioco più forte sul pianeta Terra; o quantomeno, sa assestare bene i suoi colpi. Ed è infine necessario premunirsi al peggio, prevedendo che alcune risorse debbano rimanere in attesa di essere utilizzate quando più diventeranno utili.
“Enciendas la lucha”, nei confronti del cambiamento climatico, significa iniziare a ragionare sulle conseguenze delle nostre azioni, ora che abbiamo gli strumenti e la consapevolezza di non vivere in un mondo infinito. Mettere insieme quindi una lotta, o meglio, un non voler arrendersi ai fatti per come stanno, e’ una ragionevole azione pratica e sensibile.
Un barlume di intelligenza, per rischiarare il clima del futuro.
di Damiano Martin