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La crisi climatica non colpisce tutti allo stesso modo. Questo è il principio fondamentale alla base della giustizia climatica, un concetto sempre più centrale nelle discussioni sulle politiche ambientali e sull’azione climatica globale. Uno studio recentemente pubblicato su Nature Climate Change evidenzia come la giustizia climatica non sia solo una questione ambientale, ma anche sociale, politica e sopratutto economica. Il cambiamento climatico, infatti, aggrava le disuguaglianze esistenti e colpisce in modo sproporzionato le popolazioni più vulnerabili, tra cui le comunità indigene, le persone a basso reddito e le minoranze razziali.

L’origine del termine è radicata nelle lotte anticoloniali dei popoli indigeni del Sud del mondo e nel movimento statunitense per la giustizia ambientale, ma è anche strettamente legata a decennali campagne locali contro l’inquinamento degli impianti industriali, spesso situati vicino alle comunità più povere e non bianche, e contro le attività estrattive delle multinazionali a danno del patrimonio di molti popoli indigeni. Si riferisce quindi non solo alla distribuzione iniqua degli impatti del cambiamento climatico, ma anche alla necessità di includere le comunità più colpite nei processi decisionali che riguardano le soluzioni climatiche. Secondo i ricercatori autori dello studio, il concetto di giustizia climatica include tre dimensioni principali: giustizia distributiva, procedurale e riconoscitiva. La giustizia distributiva riguarda l’ineguale esposizione ai rischi climatici; quella procedurale, la mancanza di partecipazione dei gruppi vulnerabili nelle decisioni politiche; e quella riconoscitiva, il mancato riconoscimento dei diritti e delle necessità delle comunità marginalizzate.

Nonostante la crescente attenzione al tema, la consapevolezza del grande pubblico sulla giustizia climatica rimane bassa. Il sondaggio globale proposto dallo studio, condotto in 11 paesi, ha rilevato che il 66,2% degli intervistati non aveva mai sentito parlare di giustizia climatica. Tuttavia, una volta spiegato il concetto, la maggior parte delle persone ha dimostrato di sostenerne i principi chiave, come il riconoscimento che i poveri subiscono i peggiori effetti del cambiamento climatico o che il sistema capitalista e il colonialismo abbiano contribuito in modo significativo alla crisi attuale. Guardando alcuni dei dati nello specifico, l’India ha mostrato il più alto livello di consapevolezza sulla giustizia climatica, mentre il Giappone ha registrato i livelli più bassi. I risultati suggeriscono che l’educazione e l’accesso alle informazioni possono giocare un ruolo cruciale nell’aumentare la consapevolezza e il sostegno per le politiche di giustizia climatica.

Viene inoltre sottolineato come la percezione della giustizia climatica possa influenzare il sostegno alle politiche climatiche e all’azione individuale. Coloro che riconoscono le disuguaglianze intrinseche alla crisi climatica sono più inclini a partecipare ad azioni pro-clima, come il supporto a politiche più rigorose per la riduzione delle emissioni di gas serra. Tuttavia, emerge anche una significativa polarizzazione politica: le persone con orientamenti politici più progressisti tendono a sostenere maggiormente le idee di giustizia climatica rispetto a quelle più conservatrici, che spesso rifiutano concetti legati alle disuguaglianze di genere o razziali. Nonostante non ci sia mai stato un consenso così vasto della comunità scientifica su un tema unico, quanto lo è oggi rispetto alla responsabilità antropica per il cambiamento climatico, e alla necessità di ridurre le emissioni per garantire sviluppo. Il 99% degli scienziati mondiali concorda infatti sul fatto che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane; tuttavia, si è visto soprattutto durante le recenti elezioni europee e le future elezioni americane un delineamento netto e una totale divisione politica su questi temi. Se in passato parte della società e, di conseguenza, alcuni politici potevano essere apertamente negazionisti, ora alla luce dell’accordo pressoché totale tra i climatologi, il negazionismo ha lasciato il passo a tentativi di rallentare la transizione per scopi personali e idealistici. I dubbi e le diverse posizioni rispetto a come affrontare il cambiamento climatico celano spesso dei conflitti di interessi e polarizzano il dibattito pubblico, rischiando di portare all’inazione e ad una conseguente perdita di competitività delle economie nazionali. Uno degli esempi più eclatanti riguarda la legge sul Ripristino della Natura (Nature Restoration Law) che avrebbe dovuto portare ad un aumento considerevole delle aree protette e porre rimedio al fatto che l’80% degli ecosistemi in UE, da cui dipende il buon funzionamento della nostra economia e società, è in cattivo stato di conservazione. Dopo un difficile percorso nell’Europarlamento, che si è concluso con l’approvazione del regolamento per 12 voti nell’estate 2023, l’iter legislativo è continuato con difficoltà e si è al momento arenato. 

La giustizia climatica può offrire quindi una lente cruciale attraverso cui affrontare non solo il cambiamento climatico, ma anche le disuguaglianze sociali che lo accompagnano. Sebbene il concetto non sia ancora ampiamente conosciuto, il sostegno per le sue idee fondanti è diffuso, e la sua promozione può contribuire a una maggiore partecipazione collettiva per affrontare la crisi climatica in modo equo. Soluzioni che tengano conto della giustizia sociale e ambientale sono essenziali per garantire che nessuno venga lasciato indietro nella transizione verso un futuro sostenibile.

Bibliografia

  • Ogunbode, C.A., Doran, R., Ayanian, A.H. et al. Climate justice beliefs related to climate action and policy support around the world. Nat. Clim. Chang. (2024). https://doi.org/10.1038/s41558-024-02168-y