Si sciolgono in silenzio, come lacrime di una montagna che non riesce più a chiedere aiuto.
I ghiacciai stanno morendo. A vista d’occhio, a ritmo costante, a temperature sempre più alte. Si ritirano dalle vette alpine, si spezzano in Artico, si assottigliano sul dorso della Groenlandia. E mentre la politica litiga sul prezzo della benzina, il pianeta perde le sue riserve d’acqua, la sua memoria climatica, il suo equilibrio.
Nel mondo abbiamo già perso 9.000 miliardi di tonnellate di ghiaccio. In Italia, i ghiacciai si sono ridotti del 60% in due secoli. E non si tratta solo di paesaggi che scompaiono. Si tratta di acqua, agricoltura, energia, vita. D’instabilità geologica. Di crolli come quello della Marmolada. Di siccità che fanno riemergere perfino carri armati dai fiumi. Di città come Venezia che tra qualche decennio sarà sommersa, corrosa dal sale, inghiottita da un mare sempre più vicino.
Perché un ghiacciaio che muore non è un fenomeno naturale. È un crimine climatico. Il colpevole? Purtroppo, lo conosciamo.
I ghiacciai sono lontani. Lo sono sulle mappe. Nelle fotografie. Nei documentari della domenica. Ma non dalla nostra vita quotidiana. Perché se oggi l’acqua esce dal rubinetto, se i campi sono verdi, se le dighe producono energia e le falde non sono ancora prosciugate, è grazie a loro. Ai ghiacci eterni. Che eterni non sono più.
Dal 1975 a oggi, i ghiacciai del mondo – esclusi Antartide e Groenlandia – hanno perso 9.000 miliardi di tonnellate di ghiaccio. È come se un’intera Germania venisse ricoperta da 25 metri di acqua ghiacciata. Una massa colossale scomparsa nel silenzio, anche se quel silenzio grida.
La comunità scientifica lo ripete da decenni, come un disco rotto: i ghiacciai sono i primi a crollare sotto la pressione del cambiamento climatico. I primi a cadere, i primi a morire. Sono soldati mandati in trincea a petto nudo, senza protezione, mentre il surriscaldamento terrestre avanza. Ma se loro cadono, cadremo anche noi.
Eppure, l’attenzione è scarsa. Le notizie durano mezza giornata. I dati passano inosservati. Il cambiamento climatico ha un problema: non è spettacolare. Non si vede, non fa rumore. Eppure, agisce. Scava. Prosciuga. Frantuma. E inizia proprio dai ghiacci.
L’Italia che si scioglie
Nel nostro Paese, il dramma è tangibile. Ma lo ignoriamo. I ghiacciai alpini italiani si sono ritirati del 60% dalla fine della Piccola Era Glaciale (circa metà Ottocento). Una riduzione che rispecchia quanto osservato in tutta Europa, dove tra il 1850 e il 2020 i ghiacciai hanno perso circa il 50% della loro superficie. In Svizzera, solo nel biennio 2022-2023 si sono sciolti il 10% dei ghiacci residui: una perdita definita “catastrofica” dall’Accademia delle Scienze elvetica.
L’Italia ospita circa 900 ghiacciai, per un’estensione complessiva ormai scesa sotto i 370 km². Nel 1905, erano 519 km². Nel 2006, già solo 368 km². Ma non è solo una questione di quantità: è la frammentazione a inquietare. Più ghiacciai, ma più piccoli. Più vulnerabili. Più esposti.
Un esempio simbolico è il Gran Paradiso. Durante l’ultima fase glaciale chiamata Egesen (12-14 mila anni fa), l’area ospitava 73 ghiacciai su 240 km². Alla fine della LIA, erano 101 ghiacciai su 104 km². Oggi restano una manciata di frammenti, pari al 15% dell’estensione originaria.
E poi c’è l’inquinamento invisibile: il Black Carbon. Il Nerofumo. Particolato industriale che si deposita sul ghiaccio, ne abbassa l’albedo, gli fa assorbire più calore. Sul Colle Gnifetti, prima del 1850 si rilevavano 7 μg/kg. Tra il 1850 e il 1870, 14 μg/kg. Raddoppiati. I forzanti radiativi sono passati da 13–17 W/m² fino a superare i 35 W/m² nei primi del Novecento. Una bomba termica silenziosa.
E quando il ghiaccio cede, la montagna diventa instabile. Il 3 luglio 2022, sulla Marmolada, 64.000 tonnellate di ghiaccio, acqua e roccia si sono staccate all’improvviso. Undici morti. Sette feriti. Una tragedia annunciata. E ignorata.
L’Europa che evapora
Non va meglio altrove. In Austria, la superficie glaciale si è ridotta di oltre il 70% dal 1850. In Francia, il Mer de Glace, il più grande ghiacciaio delle Alpi, ha perso 2,7 km di lunghezza in 70 anni. In Norvegia, la riduzione è meno marcata, ma in accelerazione. E nel 2022, l’intera area alpina ha segnato un record: 0,25 metri equivalenti di acqua per anno persi a livello globale. È come se ogni anno un intero strato vitale scomparisse sotto il sole.
In Groenlandia, tra il 2011 e il 2020 si sono sciolti 234 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno. E in Antartide, 150 miliardi. Ma è nell’Artico che si consuma la più drammatica delle sparizioni.
L’Artico non è solo una distesa di pack. È il cuore freddo del pianeta. Si sta spegnendo. Negli ultimi 40 anni, la superficie minima del ghiaccio marino artico estivo si è ridotta di oltre il 40%. La temperatura media artica cresce quattro volte più velocemente rispetto alla media globale. E con essa, si altera un meccanismo che pochi conoscono ma da cui dipende il nostro futuro: la circolazione termoalina atlantica.
Questo “nastro trasportatore” tridimensionale di correnti, teorizzato da Henry Stommel nel 1961, regola la distribuzione di calore tra l’Equatore e il Nord Atlantico. La Corrente del Golfo ne è solo una parte. Il vero motore è l’acqua fredda e salata che affonda nel Nord Atlantico, spinta dalla densità. Ma lo scioglimento dei ghiacci artici immette acqua dolce, diluisce la salinità, rallenta il sistema.
Secondo l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico voluto dall’ONU allo scopo di studiare il riscaldamento globale), esiste il rischio concreto che la circolazione termoalina possa rallentare significativamente entro fine secolo. Altri modelli più drastici parlano di un possibile collasso già nel giro di 30-40 anni. Se accadesse, l’Europa vivrebbe un’era glaciale improvvisa, l’Africa sarebbe colpita da siccità estreme, l’India perderebbe il monsone.
Biodiversità a rischio, ecosistemi in bilico
Lo scioglimento dei ghiacciai ha ripercussioni che vanno ben oltre il clima. Una recente metanalisi di 234 studi ha analizzato la risposta di tre ecosistemi principali – fjords, acque dolci, fronti glaciali – alla riduzione dei ghiacci. Il risultato? La biodiversità cambia. Alcune specie, i cosiddetti “winners”, prosperano nello squilibrio. Altre, i “losers”, scompaiono. Il risultato è un’alterazione profonda della catena alimentare, della qualità dell’acqua, dei flussi biogeochimici.
Lo stesso vale per gli ecosistemi artificiali. L’agricoltura soffre. L’idroelettrico si riduce. La pesca si sposta. Il turismo sparisce. In Svizzera, tanto per fare un esempio, il 15% delle piste da sci sarà inutilizzabile entro il 2040. Anche in Italia, comunque, intere vallate stanno già registrando perdite di presenze e chiusure stagionali anticipate.
Adattarsi, senza più scuse
«Non credo che riusciremo a mettere una pezza in tempi brevi» ha detto Andrea Rinaldo, professore di idrologia e vincitore dello Stockholm Water Prize. «Abbiamo a che fare con un treno in corsa. Dobbiamo adattarci, ma prima ancora dobbiamo svegliarci».
Perché finché considereremo il clima come una questione secondaria, non cambierà nulla. E quando ci sveglieremo, sarà tardi. Per Venezia. Per la Pianura Padana. Per il ghiaccio. Per tutti.
Non sarà un’esplosione. Sarà uno stillicidio. Un giorno l’acqua finirà. E ci chiederemo quando è cominciato tutto.
La risposta è semplice: quando abbiamo smesso di ascoltare il grido di aiuto della montagna.
di Isabella Zotti Minici