La rete dei punti vendita dello sfuso continua a crescere: risparmi fino a 800 euro l’anno
La vendita di prodotti sfusi potrebbe raddoppiare entro il 2023. Ed è un bene, soprattutto per l’ambiente. È quanto emerge da uno studio effettuato dall’istituto di ricerca inglese Eunomia con la collaborazione delle associazioni Zero Waste Europe e Réseau Vrac. Un documento di rilievo perché è l’unico a provare ad analizzare un mercato di nicchia poco considerato, ma di rilievo a livello sociale e per la tutela di salute e natura.
Una ricerca, come ammettono gli stessi estensori, preliminare e con risultati da considerarsi parziali in quanto frutto di un sondaggio effettuato prendendo il polso delle realtà presenti in soli 10 Paesi europei (l’Italia non c’è). A limitarne la visione è pure l’analisi dei soli rivenditori specializzati, escludendo quindi le piccole botteghe o i negozi con limitata offerta di merce sfusa. Il quadro che ne emerge, però, rimane significativo poiché fornisce una fotografia di un mercato poco noto e perché evidenzia le possibili tendenze future.
La vendita di prodotti sfusi potrebbe raddoppiare entro il 2023. Ed è un bene, soprattutto per l’ambiente. È quanto emerge da uno studio effettuato dall’istituto di ricerca inglese Eunomia con la collaborazione delle associazioni Zero Waste Europe e Réseau Vrac. Un documento di rilievo perché è l’unico a provare ad analizzare un mercato di nicchia poco considerato, ma di rilievo a livello sociale e per la tutela di salute e natura.
Una ricerca, come ammettono gli stessi estensori, preliminare e con risultati da considerarsi parziali in quanto frutto di un sondaggio effettuato prendendo il polso delle realtà presenti in soli 10 Paesi europei (l’Italia non c’è). A limitarne la visione è pure l’analisi dei soli rivenditori specializzati, escludendo quindi le piccole botteghe o i negozi con limitata offerta di merce sfusa. Il quadro che ne emerge, però, rimane significativo poiché fornisce una fotografia di un mercato poco noto e perché evidenzia le possibili tendenze future.
Addio imballaggi
Prima di parlare dei risultati, però, è meglio chiarire il profilo del settore oggetto d’indagine, quello dei negozi di prodotti sfusi o alla spina, ossia privi di imballaggi. Un mondo che si oppone all’attuale tendenza dell’over packaging, dove i mandarini sbucciati sono venduti in contenitori di plastica, e nato proprio per contrastare la tendenza all’eccesso di carta, plastica e altri materiali che avvolgono la merce sugli scaffali. Una realtà affine al movimento Zero Waste (rifiuti zero) che ne condivide la filosofia delle 5 “R”: Rifiuta, Riduci, Riutilizza, Ricicla, Riduci il compost. Teoria che, nelle diverse forme può aggiungere altre “R” come Riprogetta, Recupera e Ripara. E che ha favorito la nascita dei negozi sfusi. O meglio, la Rinascita in chiave moderna di quello che in passato era la consuetudine.
Si tratta di rivendite dove i prodotti raccolti in dispenser sono venduti a peso o a volume e consegnati ai clienti nella quantità desiderata in buste di carta, sacchetti di stoffa, vasetti di vetro o contenitori riutilizzabili. La varietà dei prodotti “nudi” offerti è molto ampia e comprende soprattutto generi alimentari come pasta, riso, legumi e vino, ma pure prodotti da erboristeria, come infusi ed erbe officinali, o per la casa e l’igiene personale, quali detersivi e saponi. Ma si possono acquistare anche cosmetici e croccantini e altre proposte per gli animali domestici. Di fatto, la disponibilità di prodotti sfusi non differisce molto da quanto presente in un carrello quando si esce da un supermercato.
Un taglio agli sprechi
La motivazione primaria della nascita dei negozi sfusi è la tutela ambientale. Produrre, trasportare e smaltire gli imballaggi, infatti, comporta lo sfruttamento di risorse naturali, il consumo di energia e la creazione di rifiuti da gestire che, se dispersi negli ecosistemi, provocano non pochi problemi. Un contesto nel quale “il rifiuto migliore è quello non prodotto” che contribuisce a ridurre la presenza di cassonetti sulle strade, discariche e inceneritori.
La tendenza dominante però è opposta. Secondo un report dell’Unione europea, i rifiuti da imballaggi sono cresciuti di 13,3 milioni di tonnellate dal 2009 al 2019 (+20,1%) arrivando a 79,3 milioni di tonnellate, dei quali 32,2 milioni di tonnellate di carta e cartone (+23,2%), 15,4 di plastica (+25,8%), 15,2 di vetro (+13,7%), 12,4 di legno (+19,3%) e 4 di metallo (+6,2%). La quota pro capite è passata da 149,9 a 177,4 kg per abitante. Un dato che per l’Italia sale a 215,64 kg l’anno, peggio solo di Irlanda, Germania e Lussemburgo, ma circa il triplo della più virtuosa Croazia (74,03 kg).
Altro vantaggio dello sfuso è la possibilità di acquistare il dosaggio ideale per le proprie esigenze favorendo l’abbattimento degli sprechi alimentari. Sperpero che ogni anno in Italia trasforma in spazzatura oltre 5 milioni le tonnellate di cibo (90 milioni in Europa), circa 85 kg pro capite. Quantità pari al 15,4% dei consumi alimentari totali con un costo di 12,6 miliardi di euro e oltre 24,5 milioni di tonnellate di carbonio emesse.
Tra i benefici c’è anche il risparmio economico, in particolare in raffronto ad alcuni prodotti come l’insalata in busta, più cara del 500% o più rispetto a quella sfusa, o del detersivo per pavimenti (in genere il tradizionale costa il doppio). Altre merci, come la pasta, sono più care, ma di qualità molto superiore. Ad ogni modo, un’indagine di Federconsumatori del 2014 stimava il possibile risparmio di una famiglia che acquista solo prodotti sfusi intorno agli 800 euro all’anno.
L’impatto della plastica
Per comprendere l’importanza dell’eliminazione dell’imballaggio è sufficiente prendere come esempio la plastica, senza però dimenticare il “peso” degli altri componenti. Quanto alla plastica, ormai sappiamo che è ovunque, dai ghiacciai dell’Everest fino alla fossa delle Marianne, ma pure nell’aria. Quando si degrada si trasforma in microplastica trasportata da vento e acqua: entra nella catena alimentare degli animali, spesso uccidendoli, e dell’uomo. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology gli esseri umani consumerebbero fino a 200.000 particelle di microplastiche all’anno tramite cibo, acqua in bottiglia e inalazione, con ripercussioni serie sulla salute.
La plastica, inoltre, deriva per il 99% dalla raffinazione di gas e petrolio, gli stessi elementi responsabili della crisi climatica. La sua decomposizione rilascia gas serra che, per il Center for International Environmental Law, potrebbero ammontare a 1,3 miliardi di tonnellate entro il 2030, l’equivalente di quasi 300 centrali a carbone. Di fatto, potrebbe rappresentare da sola il 10-13% delle emissioni di carbonio previste per mantenere il riscaldamento sotto gli 1,5 gradi.
Il problema riguarda anche i tempi lunghi di decomposizione (fino a 400 anni) e la crescente immissione sui mercati che nel 2020 ha raggiunto quota 367 milioni di tonnellate, almeno dall’analisi di PlasticsEurope, l’associazione europea dei produttori di materie plastiche. Numero che ha portato il computo dagli anni ‘50 a raggiungere gli 8,3 miliardi di tonnellate prodotte: si potrebbe arrivare a 34 miliardi entro il 2050.
Ad aggravare la situazione è il ridotto riciclaggio (meno del 10%) dovuto agli alti costi e alla qualità scarsa del derivato con la conseguenza che oltre l’80% della plastica (il restante è incenerito) finisce in discarica, nella natura e negli oceani. Si stima che almeno 8 milioni di tonnellate raggiungano il mare ogni anno (ce ne sarebbero già 150 milioni) tanto da fare prevedere che nel 2050 il peso della plastica sarà superiore a quelli dei pesci presenti nelle acque di tutto il globo. E le cose sembrerebbero destinate a peggiorare perché la sua produzione genera un giro d’affari di oltre 400 miliardi di dollari all’anno, tanto che il World Economic Forum prevede un raddoppio della produzione nei prossimi 20 anni.
Se a livello mondiale la situazione è drammatica, in Italia non va meglio. Secondo il Rapporto Rifiuti Urbani 2021 di Ispra, nel 2020 la plastica immessa al consumo ha registrando un valore complessivo di oltre 2,2 milioni di tonnellate, dei quali il 63% rappresentato da imballaggi destinati al circuito domestico. La raccolta differenziata è arrivata a poco meno di 1,6 tonnellate (26,6 kg/abitante/anno), di cui solo il 4,6% avviata al riciclaggio.
La realtà europea dello sfuso
In questo contesto la scelta di vendere prodotti privi di imballaggi assume un significato più ampio, anche perché dall’indagine di Eunomia emerge che ogni rivenditore free package evita l’avvio alla discarica di circa 1.026 kg di materiale ogni anno. L’analisi evidenza negli ultimi dieci anni una netta crescita del comparto per numero di negozi, fatturato e posti di lavoro: nel 2019 era costituito da 2.902 strutture con un fatturato complessivo di 274 milioni di euro.
I negozi si trovano per il 74% nelle zone centrali delle città, per il 15% nelle periferie e per il 6% nei piccoli centri (il restante 5% non è noto). I generi alimentari sono la categoria merceologica più venduta, seguita da prodotti cosmetici e per la pulizia della casa. La merce arriva per il 20% da produttori presenti in un raggio di 50 chilometri, per il 38% entro i 100 chilometri e per il 58% entro i 300 chilometri, mentre solo il 14% arriva da oltre 1.000 chilometri.
514 milioni di euro di fatturato
Dallo studio emergono prospettive positive per il futuro con una previsione per il 2023 di una crescita delle strutture dell’87% che porterebbe i negozi packaging free a quota 5.500, con la stima ottimistica che arriva a 13.800. Uno scenario nel quale si prevede pure il raddoppio degli occupati (da 5.274 a oltre 10.000, fino 27.000 nella visione ottimistica) e l’incremento del fatturato complessivo da 274 a 514 milioni di euro. Cifra che al 2030 potrebbe arrivare a 1,2 miliardi di euro o, nel migliore dei casi, a oltre 3,5 miliardi di euro. In tema ambientale, al 2023 si eviterebbero circa 5.500 tonnellate di imballaggi (oltre 9.000 nella stima ottimistica) con un risparmio di circa 17.131 tonnellate di CO2 (28.219 in quella ottimistica).
Settore in ripresa, malgrado la pandemia
Le previsioni di Eunomia sembrano essere confermate dalle sensazioni di Alberto Berton, titolare di Bioeco, agenzia che si occupa da venti anni della distribuzione nel Bel Paese di espositori per lo sfuso e, quindi, con una buona percezione del settore. “È un mercato di nicchia che nel tempo ha avuto alterne fortune. In voga negli Usa negli anni ‘70, è arrivato in Europa più tardi, grazie soprattutto alla Francia. Ha attratto l’interesse anche della grande distribuzione, merito di Auchan, Coop e Crai, per poi venire ridimensionato per una gestione errata, ossia per l’assenza di assistenza, necessaria per la vendita dello sfuso, oltre che per una non adeguata scelta di assortimento. Insieme allo sviluppo a fasi alterne nella rete dei negozi biologici specializzati come quelli di NaturaSì, c’è stata anche un’ondata di piccoli negozi, attratta dall’aspetto etico e ambientale, ma spesso con poca esperienza sul commercio che ha portato molti alla chiusura. Negli ultimi anni il movimento degli sfusi segna interessanti crescite, con la Francia sempre a dominare grazie anche alla presenza di catene specializzate. In Italia si assiste a una buona ripresa, anche se per assurdo la diffusione è stata rallentata dall’incertezza delle agevolazioni previste nel 2019, ma attuate a fine 2021. Un ritardo che ha indotto molti a non fare investimenti in attesa del decreto attuativo. A incrementare l’incertezza ha contribuito la pandemia limitando le iniziative imprenditoriali”.
I dati di Sfusitalia
In assenza di statistiche ufficiali sulla realtà dello sfuso per l’Italia a fornire una fisionomia più precisa è Ottavia Belli, giovane promotrice di Sfusitalia.it, un portale nato nel 2019 per mappare i negozi lungo la penisola e consentirne la ricerca tramite la geolocalizzazione. Un lavoro meticoloso iniziato con il rilevamento di 150 realtà, numero oggi salito fino a 766 grazie anche alle segnalazioni dei cittadini e degli stessi responsabili delle attività. Si tratta per lo più di negozi indipendenti al quale si aggiungono la catena Negozio Leggero con 20 punti vendita e supermercati come NaturaSì che conta 330 negozi con 40 tipi di sfusi (dai cereali alla frutta secca e ai detersivi) oltre a un sacchetto riutilizzabile in cotone organico per portarli a casa, e ricava dai prodotti senza packaging il 12% del fatturato.
A questi si aggiungono circa 250 negozi con prodotti per la casa e per l’igiene del corpo, nonché attività come tabaccherie, farmacie e lavanderie che vendono prodotti alla spina, in genere per la casa o per la persona. La distribuzione geografica privilegia il Nord rispetto al Sud Italia, tanto che le regioni più rappresentate sono Lombardia (125 punti vendita), Piemonte (82) e Veneto (81). Il Lazio (119) si colloca al secondo posto grazie soprattutto a Roma, prima città per gli sfusi in Italia, davanti a Milano e Torino. Per contro numeri minimali si hanno in Sicilia, Puglia e Sardegna, ma pure in Basilicata e Molise.
Emozioni passate per un futuro green
“L’interesse per i prodotti sfusi sta crescendo”, racconta la Belli. “Ad attrarre è un ricordo emotivo del passato, quando il nonno usava il rasoio con le lamette intercambiabili o si portava la borraccia perché non esistevano le bottigliette di plastica. Una sorta di ritorno indietro per procedere di un passo in avanti, ossia verso la sostenibilità ambientale. A favorire la diffusione dei prodotti sfusi è pure una minore diffidenza sulla sicurezza alimentare o igienica. Si pensa spesso che abbiano maggiore contaminazione, mentre devono sottostare alle stesse norme in vigore per ogni categoria di merce”.
Per contro, i maggiori ostacoli all’acquisto sfuso sono la ridotta diffusione dei negozi e l’esigenza, almeno nella fase iniziale, di organizzarsi con i contenitori indispensabili per riporre la merce. “Una necessità”, afferma la Belli, “al quale facciamo fronte fornendo consigli pratici e segnalando soluzioni efficaci, come dei sacchetti di stoffa poco ingombranti da portare in borsa”.
Agevolazioni poco efficaci
A supportare il settore avrebbe dovuto contribuire una norma per l’incentivazione di prodotti sfusi o alla spina inserita nel Decreto Clima del 2019, ma divenuta operativa a fine 2021 con il Decreto Sfusi del Ministero della transizione ecologica (MiTE). Un provvedimento retroattivo con fondi di 40 milioni (da dividere tra 2020 e 2021) per fornire contributi fino a 5.000 euro ai negozi che hanno sostenuto spese per l’adeguamento dei locali, l’acquisto di attrezzature e arredamenti o per le iniziative di comunicazione e pubblicità.
“Il provvedimento”, commenta Ottavia Belli, “ha importo modesto e non determinante per le piccole botteghe ed è arrivato in ritardo di due anni. Essendo retroattivo, premia chi ha avuto il coraggio di investire, ma lascia fuori i pionieri che hanno aperto negozi prima del 2020 e chi desidera entrare nel mondo dello sfuso. Piuttosto che un piccolo contributo una tantum, sarebbe stata più efficace una riduzione dell’Iva su prodotti che non generano rifiuti e contribuiscono alla salvaguardia del nostro habitat. Oppure sarebbe stato meglio seguire i più efficaci provvedimenti introdotti in Spagna e Francia. Nel paese iberico gli imballaggi di plastica per la vendita di frutta e verdura saranno vietati dal 2023, mentre oltralpe si è inserito l’obbligo di una quota del 25% di prodotti sfusi sugli scaffali per i supermercati di oltre 400 metri quadri”.
La grande sfida per Belli, però, “è diffondere la cultura del prodotto sfuso. Si dovrebbero comunicare i vantaggi ambientali, la provenienza locale e la qualità dei prodotti, spesso biologici. E ricordarne la convenienza economica e sociale, nonché il contributo significativo per una transizione ecologia verso una società a basso impatto. Fare comprendere che un piccolo gesto nel quotidiano genera un importante cambiamento a lungo termine a beneficio di tutti”.
di Stefano Panzeri