L’industria della moda è a un bivio: o tagliare i costi raddoppiando le pratiche insostenibili che danneggiano i lavoratori e l’ambiente, o aumentare gli impegni di sostenibilità pre-pandemia.
I tessuti e l’abbigliamento sono una parte fondamentale della vita quotidiana, e un settore importante dell’economia globale, che impiega oltre 300 milioni di persone nel comparto.
Il settore moda rappresenta oltre il 60% del totale del mercato del tessile, e si prevede che anche in futuro continuerà a mantenere questo trend. Tuttavia, il settore della moda ha evidenziato, soprattutto negli ultimi anni, un serio problema d’immagine.
Gli abusi dei diritti umani su ampie fasce di lavoratori del comparto, il fast fashion che ostruisce le discariche e le microplastiche che inquinano gli oceani sono tutte problematiche da risolvere in tempi brevi, legate a un settore che dovrebbe triplicare le sue dimensioni entro il 2050.
La produzione tessile emette più gas serra di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. E il comportamento dei consumatori non aiuta. Compriamo più vestiti come mai prima, ma ne indossiamo sempre meno. Negli ultimi 15 anni, la produzione di abbigliamento è raddoppiata grazie alla domanda di una classe media in crescente aumento in tutto il mondo, e all’aumento delle vendite pro capite nelle economie più mature, dovuto principalmente all’obsolescenza programmata vs nuovi stili e al fenomeno del “fast fashion”, con un numero di collezioni esponenziali offerte a prezzi sempre più bassi.
L’obsolescenza programmata guida la maggior parte dei modelli economici, ma non è compatibile con l’utilizzo di risorse limitate. Il 97% degli abiti è realizzato con materiali vergini, inclusi cotone e sintetici derivati da combustibili fossili, e alla fine del loro utilizzo il 73% di questi viene inviato in discarica o incenerito.
Una sveglia chiamata coronavirus
L’industria della moda è stata duramente colpita dalla pandemia da COVID-19. Mentre alcuni marchi hanno avuto una spinta dalle vendite online, la domanda complessiva dei consumatori è precipitata nel 2020, con un valore medio del mercato globale della moda diminuito del 40%.
Il coronavirus ha puntato i riflettori sulle pratiche più complesse del settore. Se l’industria della moda da 2,4 trilioni di dollari fosse un paese, sarebbe la settima economia mondiale, anche se considerata una delle industrie più sporche del mondo, responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio. Il comparto moda consuma circa 79 miliardi di metri cubi di acqua dolce all’anno, e rappresenta il secondo più grande inquinatore e consumatore di questa preziosa risorsa. Sebbene gli impatti ambientali e sociali dell’abbigliamento siano stati a lungo criticati, COVID-19 ha confermato inequivocabilmente la necessità per l’industria della moda di agire presto e in modo diverso.
Business “as usual” non è più un’opzione, e le catene di approvvigionamento della moda, le pratiche di lavoro, l’uso dell’acqua e i rifiuti tessili sono tutte criticità che hanno urgente bisogno di essere risolte in modo definitivo.
Anche prima che il coronavirus mettesse in crisi i mercati finanziari, stravolgendo le catene di approvvigionamento e schiacciando la domanda dei consumatori in tutta l’economia globale, i leader del settore della moda non erano comunque ottimisti per il 2020. Il settore era già “On High Alert”, e i dirigenti avevano espresso grande pessimismo in tutte le diverse aree geografiche del globo.
L’attuale, imprevedibile crisi umanitaria e finanziaria ha reso tuttavia superflue le strategie precedentemente pianificate, lasciando le imprese della moda sempre più esposte o senza timone, mentre i loro leader sono impegnati ad affrontare un futuro disorientante, con lavoratori vulnerabili lungo tutta la catena del valore – da quelli che raccolgono le fibre utilizzate per produrre tessuti agli assistenti di negozio che vendono il prodotto di moda finito. Ma è nei paesi in via di sviluppo, dove i sistemi sanitari sono spesso inadeguati e la povertà è più diffusa, che le persone sono colpite più duramente da questa crisi. Per i lavoratori dei centri di approvvigionamento e produzione della moda a basso costo come il Bangladesh, l’India, la Cambogia, l’Honduras e l’Etiopia, i lunghi periodi di disoccupazione significheranno fame, miseria e malattie. È quindi assolutamente urgente intervenire perché la pandemia che stiamo vivendo non si trasformi in una disfatta sociale.
David Ariel
Partner associato RJF esperto di fashion branding