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Osservando nella zona del porto vecchio di Trieste l’edificio noto come “Silos”, da fuori appare come un vecchio rudere di cui oggi si parla perché dentro molti migranti trovano rifugio una volta arrivati in Italia, ma pochi sanno che in realtà rappresenta anche un pezzettino di storia del capoluogo giuliano. Questa struttura è stata infatti costruita perché serviva all’Impero austroungarico, di cui Trieste faceva parte fino alla Prima guerra mondiale, per conservare le sue scorte di grano che giungevano nel porto. Nel secondo dopoguerra poi ospitò migliaia di italiani in fuga dall’Istria, in quello che viene chiamato l’esodo giuliano dalmata, noto anche come esodo istriano, un evento storico consistito nell’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di nazionalità e di lingua italiana dalla Venezia Giulia (comprendente il Friuli Orientale, l’Istria e il Quarnaro) e dalla Dalmazia, nonché di un consistente numero di cittadini italiani (o che lo erano stati fino poco prima) di nazionalità mista, slovena e croata, che si verificò a partire dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e nel decennio successivo. Si stima che i giuliani (in particolare istriani e fiumani) e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone. Il Silos ha quindi cominciato ad ospitare migranti da ben prima degli ultimi anni in cui è risaltato alle cronache nazionali, oggi però si presenta come una struttura fatiscente, andata anche a fuoco nel 1994, che ospita centinaia di richiedenti asilo che arrivano da quella che viene definita la “rotta balcanica”.

Questo termine si riferisce al percorso migratorio seguito da molte persone provenienti principalmente dal Medio Oriente, dall’Africa settentrionale e da altre regioni, che attraversano i Balcani in direzione nord-ovest, spesso con l’obiettivo finale di raggiungere paesi dell’Europa occidentale, come Germania, Austria e Scandinavia. Questo percorso spesso include il viaggio attraverso la Turchia, la Grecia, la Macedonia del Nord, la Serbia e altri paesi balcanici, fino a raggiungere paesi dell’Unione Europea come Slovenia, Croazia e molto spesso anche l’Italia. Già in passato, la rotta balcanica è stata una delle principali vie di ingresso per i migranti che cercavano di raggiungere l’Europa, soprattutto durante la crisi migratoria del 2015-2016.

L’esponenziale incremento di questo fenomeno negli ultimi anni è tuttavia anche dovuto ad un fenomeno che si sta aggravando sempre di più noto come “migrazione climatica”, o “migrazione ambientale”, che si riferisce al movimento di persone da un luogo a un altro a causa degli impatti diretti o indiretti dei cambiamenti climatici. Questi spostamenti forzati di grandi masse di persone sono infatti spesso il risultato di eventi estremi come alluvioni, siccità prolungate, innalzamento del livello del mare e altri fenomeni meteorologici estremi, che minacciano la sicurezza e la sostenibilità delle comunità più povere specialmente del sud del mondo. Ci sono alcune regioni del mondo che sono particolarmente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici, come alcune parti dell’Africa subsahariana e del Medio Oriente soggette a siccità prolungate, che potrebbero vedere un aumento della migrazione a causa della diminuzione delle risorse idriche e della perdita di terre coltivabili. Le nazioni insulari, come le isole del Pacifico e dei Caraibi, sono particolarmente vulnerabili all’innalzamento del livello del mare e agli eventi climatici estremi, dove l’erosione delle coste e la perdita di territorio possono spingere le persone a migrare verso terre più sicure. Infine, alcune comunità rurali che dipendono direttamente dalle risorse naturali per la loro sussistenza, come l’agricoltura e la pesca, potrebbero essere costrette a spostarsi a causa della perdita di produttività agricola o della diminuzione delle risorse ittiche dovute all’acidificazione degli oceani.

Le migrazioni in generale fanno da sempre parte della storia dell’umanità, da millenni gli esseri umani si sono spostati da un luogo all’altro per diverse ragioni, questi movimenti di massa producono però un impatto profondo e di lunga durata sulla qualità della vita di chi migra, la maggior parte dei quali sono spesso bambine, bambini e adolescenti, e delle comunità di origine o di nuova appartenenza. L’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite ha stimato che a fine 2023 il numero di persone costrette a fuggire dalle proprie case a causa di guerre, fame e carestie ha raggiunto il totale di 114 milioni. I bisogni delle persone costrette alla fuga continuano a superare le soluzioni, anche per quanto riguarda i ritorni volontari e i finanziamenti disponibili. Dal 2016 al 2022 per ogni rifugiato che ha trovato una soluzione duratura alla propria situazione (reinsediamento, ritorno volontario nel paese d’origine o l’integrazione nel paese dove ha trovato protezione) altre cinque persone in media sono state costrette a fuggire.

Quindi dopo essere fuggiti dai loro luoghi di origine camminando per centinaia se non migliaia di chilometri lungo la “rotta balcanica”, dopo essere stati picchiati e trattati in maniera disdicevole e inumana dalle forze di polizia dei paesi balcanici, queste persone arrivano in Italia a Trieste dove pensano di trovare un trattamento più umano. Il luogo dove però sono costretti a vivere molti di loro per due/tre mesi (se non di più) è appunto il Silos, dove la testata giornalistica repubblica ha prodotto un reportage chiamato “Ultima fermata Trieste” in cui il registra Pif (Pierfrancesco Diliberto all’anagrafe) descrive molto bene la situazione di degrado con queste parole: “A Trieste li ho visti dormire (i migranti) per terra dove non faremmo passare i nostri cani”. 

Siamo quindi nell’anno 2024 e il Silos continua ad essere casa di chi migra, di chi viaggia e arriva a Trieste, ormai considerata quasi una Lampedusa di terra, fermata finale della “rotta balcanica”. La gente di Trieste non ha però perso anche l’ultimo briciolo di umanità, ogni sera infatti, nella piazza difronte la stazione, queste persone vengono accolte e accudite da una incredibile rete di solidarietà nata dal basso, una forma rivoluzionaria di politica mossa dal cuore della gente. Volontari che offrono loro un piatto caldo, una giacca e anche magari un barlume di speranza di una vita migliore. La sera però tornano sempre a dormire tra le rovine del Silos, dove vengono morsi dai topi, contraggono scabbia, polmoniti e altre malattie. Quando vengono ricoverati e poi dimessi si trovano però a dover tornare in quello che, come dice Pif nel suo reportage, è “una porta per l’inferno”. 

di Pietro Boniciolli

 

 

 

 

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