Ho attivato un account su chatGPT, una chat in cui chi risponde è un’intelligenza artificiale creata da OpenAI: ho incominciato a dialogare con lei e devo dire che mi ha sorpreso. Ha una risposta per ogni vostra domanda, un unico caveat: oltre a porre bene la domanda è molto importante controllare sempre il risultato facendo altre domande di verifica se la risposta non vi convince. Ho provato anche a farle scrivere degli algoritmi: la capacità che ha chatGPT di scrivere codice è altrettanto sbalorditiva.
Fatte queste premesse, ho chiesto a chatGPT di spiegarmi cosa sia l’Industria 4.0, ed ecco la sua risposta: “…è un concetto che si riferisce all’adozione di tecnologie digitali avanzate nella produzione industriale. L’Industria 4.0 comprende l’integrazione di sistemi di produzione meccanici con sistemi di automazione e controllo basati su tecnologie digitali come l’Internet delle cose (IoT), il cloud computing, la robotica avanzata e l’intelligenza artificiale. L’obiettivo dell’Industria 4.0 è quello di aumentare l’efficienza, la flessibilità e la personalizzazione della produzione, nonché la qualità e la sicurezza dei prodotti”. Su questa definizione mi sono trovato in buon accordo.
Ho chiesto poi a chatGPT di dirmi cosa sia l’Industria 5.0 e mi ha risposto che l’Industria 5.0 “…è ancora in fase di sviluppo e si riferisce all’adozione di tecnologie di ultima generazione, come la realtà aumentata e la realtà virtuale, nella produzione industriale. L’Industria 5.0 mira a creare un ambiente di produzione altamente integrato e personalizzato in cui le tecnologie digitali avanzate consentono una maggiore collaborazione tra uomo e macchina e una maggiore flessibilità nella produzione. Si prevede che l’Industria 5.0 possa portare a una maggiore sostenibilità e a una produzione più efficiente dal punto di vista energetico.”
Questa seconda risposta se pur a prima vista condivisibile, mi ha lasciato invece un po’ l’amaro in bocca, e mi fa capire che noi umani nel 2021 (anno in cui si ferma la conoscenza di chatGPT), non avevamo ancora raggiunto un consenso sulla definizione di Industria 5.0. La mia definizione di Industria 5.0 è un po’ diversa, quanto basta per poterci permettere di pensare a un drastico cambio del modello di produzione. Voglio credere che l’Industria 5.0 rappresenti lo stadio di maturità della 4° rivoluzione industriale. Un momento in cui non si useranno le tecnologie digitali solo per intensificare il modello di produzione industriale corrente, che oramai non è più in grado di rispondere ai bisogni di sostenibilità dell’astronave Terra che popoliamo. Un momento in cui le tecnologie digitali verranno usate in modo trasformativo, così da farle artefici di un cambiamento discontinuo. Una discontinuità pilotata e inizialmente guidata da noi umani, e in seguito catalizzata e amplificata dalle tecnologie digitali.
La discontinuità di cui parlo non è altro che il passaggio dal modello di produzione industriale al modello di produzione digitale. Dal punto di vista dell’economia, questo significa passare dall’economia del prodotto all’economia del risultato (outcome economy); un’economia in cui quello che conta non è più il prodotto in quanto tale, ma i risultati o le prestazioni che si ottengono dall’uso del prodotto stesso; un’economia in cui tutte le cose diventano ‘servizio avanzato’ grazie all’introduzione di nuovi modelli di business che solo il digitale rende possibile attivare. Questo non solo consentirà di rispondere alla crescente domanda, da parte dei clienti, di personalizzazione e di soluzioni su misura, ma consentirà anche alle imprese di aumentare i profitti riducendo il prezzo d’uso per il cliente e limitando drasticamente gli impatti sull’ambiente. Parlo di ‘prezzo d’uso’ e non di ‘prezzo di acquisto’, intendendo il prezzo al chilo del prodotto. Il prezzo al chilo è destinato a salire, ma non è più un ‘peso’ che il cliente compra, bensì un ‘tempo’; dunque, il digitale può fare la magia di aumentare il prezzo al chilo del prodotto per l’impresa, allo stesso tempo riducendo il prezzo d’uso del prodotto per il cliente. Vi sono inoltre benefici indiretti, quali un migliore uso delle risorse grazie all’allungamento della vita utile dei prodotti, una drastica riduzione degli scarti e una conseguente riduzione dell’energia richiesta dall’industria. Si tratta di un modello nuovo che crea un circolo virtuoso: si passa da un modello economico in cui qualcuno deve perdere, e di solito si fa perdere l’ambiente, a un modello in cui tutti vincono. Mi piace pensare l’Industria 5.0 e l’outcome economy come due concetti complementari, due facce della stessa medaglia, dove la tecnologia ha la funzione di riportare l’umano al centro, e dove l’economia circolare migliora il conto economico delle imprese e non è più un costo.
Per attivare questo circuito virtuoso ci sono da formare nuovi tecnici IT. Il digitale è e sarà sempre di più importante in tutti i settori dell’economia, e già ora ci troviamo con una carenza generalizzata di competenze IT. La cosa è già drammatica visto che secondo una ricerca del 2021, il 64% delle imprese affermava che la carenza di personale IT è la barriera più difficile da superare nell’adozione delle nuove tecnologie. Nel 2020 solo il 4% riteneva che l’ostacolo fosse legato al personale. Secondo altre stime, entro il 2030 potremmo trovarci, a livello mondiale, con 85 milioni di posti di lavoro vacanti, con mancati ricavi per le imprese stimati in 8,5 trilioni di dollari.
In Italia, oggi gli ITS hanno un ruolo più che mai strategico per formare in tempi rapidi i nuovi tecnici dell’era digitale. Va dedicata da parte di tutti molta attenzione agli ITS Academy che se ben usati potrebbero di molto mitigare il problema della mancanza di tecnici. In fin dei conti, se l’IBM ha annunciato l’obiettivo ambizioso di formare, a livello globale, 30 milioni di persone entro il 2030, dovremmo farcela anche noi, in questo Paese, a formare entro il 2030 almeno 3 milioni di super tecnici. Esiste inoltre uno strumento ancora poco usato, che è l’apprendistato di alta formazione: le imprese potrebbero dare ai giovani una retribuzione mentre imparano, e basterebbe cambiare solo di poco la norma per renderlo molto attrattivo in una logica di sviluppo degli ITS. Rivolgendomi alle imprese e parafrasando una frase di J.F. Kennedy, non chiediamo al sistema educativo italiano cosa possa fare per le imprese, ma cosa le imprese assieme a famiglie e insegnanti possano fare per l’Italia, supportando e alimentando le scuole di alta formazione come gli ITS Accademy.
di Roberto Siagri,
Presidente della Cabina di Regia di IP4FVG