l rilancio di azioni e teorie antiscientifiche sul clima rischia di fermare la transizione ecologica nel mondo. La nuova Commissione von der Leyen deve rilanciare il Green Deal e “fare pace con le contraddizioni” dell’Ue.
“Abbiamo più oro liquido, petrolio e gas, di qualsiasi altro Paese al mondo. Più dell’Arabia Saudita. Più della Russia”. Con queste parole tratte dal suo primo discorso dopo il voto e con lo slogan “Drill, baby, drill” (“Trivella, baby, trivella”), il neoeletto presidente americano Donald Trump ha confermato che gli Stati Uniti torneranno a puntare sui combustibili fossili. La sua rielezione è stato il più grande “comeback” della storia degli Usa secondo i suoi sostenitori, ma, io direi, soprattutto il più grande comeback del negazionismo.
Il mondo non perderà infatti solo la grande alleanza con gli Stati Uniti nelle azioni contro il cambiamento climatico (ricordo che Trump nel suo primo mandato aveva ritirato il Paese dall’accordo di Parigi e abrogato più di cento norme ambientali), ma si troverà a dover affrontare anche il dilagare di una nuova ondata di negazionismo. Un negazionismo rinvigorito che rischia di far aumentare in tutto il mondo le pressioni volte a rallentare la transizione energetica.
Sembra non bastare, infatti, l’impatto sempre più devastante e frequente degli eventi estremi sotto gli occhi di tutti, con le tragiche morti dell’alluvione di Valencia che sono solo uno degli ultimi episodi, come abbiamo raccontato anche in una recente notizia sul sito ASviS, ricordando in parallelo anche l’altra faccia della medaglia del cambiamento climatico, quella della siccità, che nel 2050 porterà 5 miliardi di persone nel mondo a non avere accesso all’acqua almeno un mese all’anno.
No, per Trump il riscaldamento globale rimane “una delle più grandi truffe di tutti i tempi”, per lui “il Pianeta si sta anzi raffreddando”, le “turbine eoliche causano il cancro” e se “gli oceani si stanno alzando, avremo più case con vista mare”, e in fondo, se “l’oceano si alzerà, a chi diavolo importa?”. Una domanda, quest’ultima, che il presidente americano dovrebbe porre, ad esempio, agli indonesiani che due anni fa hanno dovuto spostare la propria capitale da Giacarta a una remota località sull’isola del Borneo, chiamata Nusantara, perché la città sta sprofondando sotto gli effetti del cambiamento climatico. Anche la squadra di cui si sta circondando il presidente americano è allarmante, come ripercorre bene Renewable matters: da Robert Kennedy junior alla sanità, con le sue teorie no-vax o del complotto, a Lee Zeldin alla protezione dell’ambiente, negazionista che votò contro la più importante legge per l’ambiente e il clima degli Usa (l’Inflation reduction act). Senza dimenticare il suo nuovo braccio destro, Elon Musk, proprietario di X, su cui trovano spazio diverse teorie complottiste. Una tra le ultime, quella che vede l’uragano Milton, che ha causato vittime e distruzione in Florida, come opera di forze governative segrete che manipolano il clima, a partire da un’idea della deputata repubblicana Marjorie Taylor-Greene, che ha scritto su X: “Loro… possono controllare il meteo”, portando sulla piattaforma a insulti e minacce di morte rivolte a studiosi e meteorologi.
Certo, anche prima di Trump le politiche climatiche non stavano andando proprio nella direzione auspicata, come dimostra anche il fatto che la Cop 29 sul clima, attualmente in corso a Baku, si sta chiudendo con risultati molto limitati (qui le cronache quotidiane di Ecco, video e articoli dal sito ASviS sul vertice). Ma come possiamo evitare che le fake news e teorie cospirative di Trump e i suoi sostenitori riaccendano i negazionisti di tutto il mondo, frenando ulteriormente la transizione ecologica?
L’Onu, insieme all’Unesco e al governo brasiliano, ha lanciato martedì in occasione della Cop la Global initiative for information integrity on climate change per rafforzare l’azione contro la disinformazione sul clima. Anche la coalizione Climate action against disinformation ha lanciato al vertice sul clima un appello ai governi ad adottare misure immediate e decisive contro la disinformazione sul riscaldamento globale. La coalizione aveva pubblicato nel 2023 un rapporto, dal titolo “Climate mis-/disinformation backgrounder”, che classifica le diverse narrative di disinformazione, ne individua le fonti, esamina le strategie contro il cambiamento climatico e illustra le possibili soluzioni per affrontarle. Le cinque principali narrazioni identificate sono: “il riscaldamento globale non sta avvenendo”, “i gas serra umani non stanno causando il riscaldamento globale”, “gli impatti climatici non sono negativi”, “le soluzioni climatiche non funzioneranno” e “il movimento/la scienza sul clima non sono affidabili”. Ci sono poi i “discorsi sul ritardo climatico“, che rappresentano un importante sottogenere di affermazioni di disinformazione, poiché accettano l’esistenza dei cambiamenti climatici, ma giustificano azioni o sforzi inadeguati: “reindirizzano la responsabilità per i cambiamenti climatici, sostengono soluzioni climatiche non trasformative, evidenziano gli svantaggi dell’azione climatica o sostengono che la società dovrebbe arrendersi al cambiamento climatico”.
Secondo il Rapporto, le principali strategie dei negazionisti consistono in attività di lobbying e pubblicità, greenwashing, woke-washing (cioè l’appropriazione della terminologia della giustizia sociale per rafforzare la reputazione di un’azienda) e il finto consenso popolare (ovvero dare la falsa impressione di un movimento diffuso e spontaneo, magari guidato da cittadini, a sostegno o in opposizione a qualcosa, ma che in realtà è avviato, controllato e finanziato da gruppi come l’industria dei combustibili fossili). Tra le tecniche utilizzate per portare avanti queste strategie vi è l’utilizzo di falsi esperti o di fallacie logiche, lo stabilire aspettative impossibili, lo scegliere dati che sembrano confermare una posizione in modo decontestualizzato ignorandone altri (quindi utilizzano affermazioni vere ma in modo fuorviante) e la diffusione di teorie del complotto.
Esistono dei modi, però, per frenare tutto questo. Con il debunking si smentiscono direttamente le fake news in modo chiaro e inconfutabile, mostrando cosa è vero, mentre con il prebunking si va a proteggere l’opinione pubblica dalla disinformazione in modo preventivo, mettendo in allerta sulle narrazioni antiscientifiche più comuni e confutandole prima che le persone vengano ingannate. Ecco, credo che in particolare la seconda strategia sia cruciale per riuscire a contrastare il nuovo vento di negazionismo che soffierà dagli Stati Uniti. Diffondere una cultura dell’informazione, educare giovani e adulti a discernere le fonti autorevoli da quelle false, preparare l’opinione pubblica a saper riconoscere le narrazioni false o “comode”, trovo siano tutti ingredienti fondamentali per affrontare la sfida del negazionismo. I governi possono giocare un ruolo importante nella definizione di politiche per le piattaforme social, pubblicitarie, dei media e online, che favoriscano la trasparenza e ostacolino la diffusione di informazioni errate. Ma sono soprattutto le organizzazioni della società civile a poter ricoprire un ruolo di primo piano nel contrasto alla disinformazione, con una grande opera comune di debunking e prebunking, in sinergia con la comunità scientifica.
Se non ci sarà un’azione decisa in questa direzione, il negazionismo di matrice trumpiana potrà riuscire a cavalcare i dubbi e le paure dei cittadini, allarmati dai costi di una transizione verde che in realtà non solo allontanerà danni economici ben più ingenti, ma darà anche una nuova spinta all’economia. In Europa e in Italia i “discorsi sul ritardo climatico”, che spingono verso azioni non trasformative rallentando la transizione ecologica, rappresentano una seria minaccia per la sfida del cambiamento climatico. Non a caso, l’Italia è stata bocciata dalla nuova classifica mondiale di performance climatica, stilata da Germanwatch, Climate action network e New climate institute, in cui si posiziona al 43esimo posto nel mondo e al 20esimo tra i 27 Paesi membri dell’Ue, a causa di politiche climatiche “fortemente inadeguate” e “poco ambiziose”, inclusa la proroga dal 2025 al 2029 sulla chiusura delle centrali a carbone e lo sviluppo ancora troppo lento delle rinnovabili. Proprio per sollecitare una più rapida transizione, con il Rapporto ASviS sugli scenari per l’Italia al 2030 e al 2050 avevamo provato a illustrare, attraverso le analisi sviluppate con Oxford Economics, i possibili cinque futuri a cui andiamo incontro a seconda delle scelte e degli investimenti che faremo oggi, ribadendo che i costi dell’inazione sono di gran lunga superiori a quelli dell’azione e che dunque l’unico scenario in grando di massimizzare il benessere collettivo ed evitare i maggiori impatti sulla salute e sulle nostre economie è quello che punta a raggiungere la neutralità climatica con politiche trasformative (net zero transformation).
Le pressioni per rallentare la transizione ecologica potrebbero mettere a dura prova l’Europa. Un indicatore particolarmente evidente, ad esempio, è il freno sul passaggio all’auto elettrica, con la mancanza di una politica industriale di incentivi coordinata e l’incertezza sui tempi della transizione. Più in generale, i contrasti all’interno dell’Unione rischiano di minare le radici della sua visione ambiziosa sul clima, a partire dal Green Deal. Per questo con l’ASviS Live “L’Europa che verrà e le implicazioni per l’Italia”, che si è svolto il 19 novembre a partire dalle analisi e proposte del Rapporto 2024, si è ribadita la necessità di un rinnovato impegno su Agenda 2030 e Green Deal da parte dell’Ue, che nonostante le divisioni tra gruppi politici è fondamentale eserciti la propria capacità di leadership. Positivo, in questo senso, il primo atto del Consiglio europeo con la nuova legislatura che ha ribadito la massima ambizione sulla riduzione delle emissioni al 55% entro il 2030 e sulla neutralità carbonica al 2050, andando nella direzione di confermare il Green Deal e gli impegni correlati.
Tuttavia, la presenza dell’Europa alla Conferenza delle parti sul clima in corso è apparsa finora troppo debole. Come spiega Chiara Martinelli, osservatrice del vertice per Climate Action Network:
“La prima settimana di Cop 29 è stata caratterizzata da una leadership climatica debole, progressi lenti e obiettivi lontani. Se i leader europei sono seri nel loro impegno di non arretrare dal Green Deal, devono iniziare a fare passi concreti. L’Ue non sta aiutando, si presenta come un leader del clima e una costruttrice di ponti, ma non stiamo vedendo niente di tutto questo”.
Eppure, come commentato da Ferdinando Cotugno su Domani:
“Con gli Stati Uniti nelle condizioni che conosciamo, e il mondo dilaniato da crisi politiche e militari, la Cop 29 per l’Unione europea sarebbe l’occasione per cementare l’unica leadership che può ancora vantare nel mondo, quella dell’impegno climatico, frutto del gran lavoro fatto col Green Deal”. E intanto, alla Cop, “stanno emergendo altre due leadership, in attesa che l’Unione faccia pace con le sue contraddizioni. La presidenza ha affidato la supervisione del negoziato a Brasile e Regno Unito, gli unici due ad aver già presentato degli Ndc (Nationally determined contribution, che consiste in un piano di azione climatica, ndr) all’altezza della sfida”.
Tuttavia, stanotte sono state superate le turbolenze delle audizioni dei Commissari Ue, con il via libera anche a Raffaele Fitto e Teresa Ribera. La firma dell’atteso accordo di coalizione tra i gruppi politici di maggioranza apre la strada per il secondo mandato di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea dal 1° dicembre. Con la nuova Commissione, finalmente operativa, arriva dunque il momento di verificare la possibilità di superare le divergenze dell’Ue e di attuare nei prossimi anni le politiche europee avviate nella precedente legislatura, integrandole con il quadro degli Orientamenti politici 2024-2029. Nel Rapporto ASviS 2024 è presentato una sorta di “scadenzario europeo” (a p. 79) per i prossimi due anni, dal quale emergono in particolare tre categorie di azioni: la chiusura di alcuni iter legislativi avviati nel precedente mandato, che richiede un accordo tra Parlamento e Consiglio; gli adempimenti da parte della Commissione europea e dagli Stati membri, coerentemente con le scadenze specifiche previste dalle direttive e dai regolamenti già approvati; la trasformazione degli Orientamenti politici 2024-2029 in atti concreti.
Come abbiamo ribadito nel nostro ultimo editoriale sulla nuova globalizzazione, ora più che mai abbiamo bisogno di un’Europa più rapida e unita. E per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno anche della società civile europea, che può sostenere le istituzioni attraverso un intenso lavoro di comunicazione e informazione scientifica sui cambiamenti climatici, contribuendo a fronteggiare i “discorsi sul ritardo climatico” e le richieste di ridurre l’impegno sul Green Deal e le politiche climatiche, perché questo è invece il momento in cui è più necessario intensificarle. Serve un grande sforzo comune per far comprendere che investire in tecnologie green e nella lotta al cambiamento climatico è un affare non solo per il Pianeta, ma anche per le economie e le società dei Paesi. E come ha ricordato anche il segretario generale dell’Onu, António Guterres, alla Cop 29: “La finanza climatica non è beneficenza, è un investimento. L’azione per il clima non è facoltativa, è un imperativo”.
di Flavia Belladonna