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Gli esseri umani sono in uno stadio evolutivo nuovo, in termini cognitivi, emotivi e psicologici, o si sono adattati al nuovo assetto tecnologico?

Stiamo attraversando la fase di transizione dall’era dell’emergenza pandemica, in cui un equilibrio in termini di organizzazione del lavoro e gestione delle relazioni professionali era stato trovato, a un mondo nuovo in cui molto deve ancora essere compreso (e “ricostruito”). È più facile cedere alla tentazione di fare dei pronostici sul futuro piuttosto che chiedersi che tipo di nuovo assetto dell’organizzazione del lavoro riteniamo più appropriato e generativo e rimboccarsi le maniche per costruirlo.

Una cosa su cui sembrerebbero convergere molte delle riflessioni di coloro che si occupano delle persone nelle aziende (mi riferisco a consulenti, formatori, facilitatori, ecc.) è la rinnovata importanza da attribuire alla relazione umana e l’imprescindibilità di un approccio ampiamente basato su fiducia, empatia, gentilezza, comprensione, inclusione, sostegno, valorizzazione e rispetto.Tutto verissimo. Dopo anni di fatica psicologica ed emotiva, occorre rivedere radicalmente le modalità di gestione della relazione professionale, a e tra tutti i livelli.

Eppure, questa non è una competenza che si improvvisa ma va allenata. Inoltre, come suole dirsi, “it takes two to tango” ovvero si costruisce reciprocamente con la responsabilizzazione di entrambe le parti. E poi la relazione empatica con gli altri è certamente parte dell’istinto dell’essere umano, ma, a fronte della naturale propensione anche a sospettare del diverso, richiede uno sforzo consapevole di cura e impegno.

Nell’ottimo saggio di Lisa Iotti, “8 secondi: viaggio nell’era della distrazione” edito da “Il Saggiatore”, l’autrice a un certo punto fa riferimento agli esiti di uno studio sperimentale della Georgetown University dal titolo: “Lo smartphone riduce i sorrisi tra gli sconosciuti”, che ho trovato estremamente interessante. “La ricerca mostra che gli smartphone possono inibire la nostra propensione a sorridere a sconosciuti in situazioni casuali, là dove sarebbe invece normale stabilire delle interazioni. Sono i cosiddetti sorrisi Duchenne, come chiamano gli scienziati i sorrisi genuini, che coinvolgono precisi muscoli della nostra architettura facciale e trasmettono emozioni autentiche”.

Il sorriso misura il grado della nostra empatia e rappresenta la principale porta d’ingresso verso gli altri, “il più importante comportamento sociale orientato all’approccio, talmente immediato e forte come messaggio non verbale che persino i neonati sanno riconoscerlo e replicarlo”, scrivono i ricercatori.

L’esperimento degli scienziati della Georgetown University ruotava intorno ad un escamotage molto semplice: far accomodare alcune persone, tra loro sconosciute, in una sala d’attesa per una decina di minuti, senza che sapessero con precisione il motivo per cui erano lì e senza, in tutto ciò, sospettare di essere riprese da telecamere nascoste. All’ingresso alcune persone avevano dovuto lasciare il telefono in un armadietto mentre altre persone lo avevano tenuto con sé. Le immagini delle telecamere hanno testimoniato come “i partecipanti con il telefono in tasca sorridessero un numero di volte significativamente inferiore (il 30 per cento in meno) e in modo molto meno autentico (cioè non-Duchenne) rispetto ai partecipanti che non avevano con sé il telefono”.

Ed è stato poi osservato anche il meccanismo della profezia che si autoavvera: le persone senza telefono consideravano quelle con il telefono (e quindi con il capo chino su di esso) distratte e poco propense a relazionarsi, agendo di conseguenza ovvero mostrandosi a loro volta meno amichevoli. Spesso poi i neologismi, anche quelli più bizzarri o stiracchiati, sanno cogliere e interpretare lo spirito dei tempi. In tal senso due parole coniate negli ultimi 15 anni, in due momenti successivi, hanno in qualche modo evidenziato la normalizzazione dell’impatto degli smartphone sulle relazioni: da terzo incomodo, il telefono diventa parte integrante della dinamica relazionale tra le persone.

Prima dell’avvento dell’iPhone era stato introdotto un termine molto particolare: pizzled, unione di «piss off» (spazientirsi, arrabbiarsi) e «puzzled» (rimanere confusi). La parola serviva per indicare quella sorta di sensazione di disorientamento mista a sgomento e che scaturiva dal fatto di trovarsi di fronte a qualcuno che all’improvviso, mentre era impegnato in una conversazione con noi, iniziava a navigare o interagire con altre persone tramite il telefono. Questa parola certamente tradiva un giudizio poco favorevole nei confronti di questo tipo di atteggiamento.

A distanza di qualche tempo è saltata fuori un’altra parola che invece apparentemente ridimensiona il giudizio e si limita a mettere in evidenza l’atto dello snobbare gli altri quando si tira fuori dalla tasca il telefono: phubbing, unione di “phone” e “snubbing” (snobbare).

Rimettendo assieme i pezzi possiamo dire che: in poco meno di vent’anni gli smartphone hanno alterato gli equilibri e le regole del gioco relazionale, certamente sia in senso positivo che in senso negativo. La pandemia ha poi esasperato il fenomeno del distanziamento, mostrandoci certamente l’altissimo valore sociale della tecnologia ma riproponendoci poi una questione molto semplice e ineludibile: gli esseri umani sono già in uno stadio evolutivo nuovo, in termini cognitivi, emotivi e psicologici, oppure si sono solo adattati a questo nuovo assetto?

A giudicare dagli appelli al recupero di una relazionalità umana ed empatica, sembrerebbe prevalere la seconda ipotesi ovvero quella dell’adattamento (peraltro faticosissimo). La domanda, apparentemente banale, resta ancora orfana di una risposta, tutt’altro che semplice: cosa fare per gestire questa transizione verso un nuovo assetto organizzativo del lavoro tenendo conto di questo sostanziale e drammatico trade off?

Gianluca Rizzi

fonte: ilsole24ore.it