Nell’elenco dei 17 goal dell’Agenda 2030 ONU per lo sviluppo sostenibile, ogni obiettivo ha la sua pagina dedicata, tranne uno: l’ultimo. Proprio al 17° sono dedicate due facciate in cui si preme, si calca, sull’aiuto che i paesi sviluppati dovrebbero dare ai paesi in via di sviluppo, sul piano finanziario e (eco)tecnologico. “Partnership per gli obiettivi”, che tradotto con altri verbi vuol dire cooperare, concordare, aiutare, sostenere, rispettando la coerenza macro-economica e le politiche interne ed esterne, nel rispetto della sovranità statale. Obiettivo: eliminare la povertà e promuovere lo sviluppo sostenibile.
Si ammetta e si conceda con qualche riserva tali obiettivi; tuttavia, sempre di obiettivi si tratta. Il che non presuppone nulla di controproducente, se non fosse che l’utilitarismo con il quale si perseguono, e le parole utilizzate – perlopiù volte a circoscrivere tale centralità – mancano di un afflato rivoluzionario; non per la rivoluzione in sé, ma per il bisogno di cambiare metodo, e valori, volti a una presunta sostenibilità globale.
Non più l’uomo, ma una sigla, è la misura di tutte le cose, con buona pace di Protagora. Per esempio, al punto 17.2: “I Paesi sviluppati adempino pienamente ai loro obblighi di aiuto pubblico allo sviluppo, tra cui l’impegno da parte di molti Paesi sviluppati di raggiungere l’obiettivo dello 0,7 per cento di APS/RNL per i Paesi in via di sviluppo e da 0,15 a 0,20 per cento di APS/RNL per i Paesi meno sviluppati; i donatori di APS sono incoraggiati a prendere in considerazione la fissazione dell’obiettivo di fornire almeno 0,20 per cento di APS/RNL per i Paesi meno sviluppati”.
APS e RNL, ovvero “Aiuto Pubblico alla Sviluppo” e “Reddito Nazionale Lordo” – nel caso non foste avvezzi alle nomenclature – in rapporto tra loro indicano l’ammontare percentuale di quanto un paese del Primo mondo dovrebbe, o potrebbe, investire in aiuti alle nazioni meno abbienti. Detto, fatto: l’obiettivo numerico stabilisce quel vertice, punto d’incontro, tra due Paesi diversamente sviluppati, prevedendo poi l’attuazione di politiche coordinate volte – si presume – a non dilapidare tale “punto di partenza economica”, ma di sfruttarlo in maniera adeguata per sopraggiungere all’autonomia statale di un Paese altrimenti più sfortunato, o meno propenso a questo sviluppo (occidentale); si vada a sapere poi perché vi è un discrimine tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo, e quali sono i parametri che stabiliscono il confine.
Il resto, è tutta politica, tutta cooperazione internazionale, fatta di grandi parole e, di nuovo, di obiettivi morali a lungo termine – inclusione, libertà, legge, partenariato multilaterale – che non tengono conto dell’altra faccia della stessa medaglia etica: la strada da percorrere tra noi e quegli obiettivi. Una deontologia, in termini filosofici, che stabilisca le regole con le quali stare al mondo – anche e soprattutto a livello politico – e che possano catalizzare le finalità collaborative auspicate nel goal 17. Una deontologia che non si può fermare, kantianamente parlando, al solo pensiero dei principi primi dettati dalla ragione; piuttosto, attraverso i piani emotivi, dal singolo individuo all’intera comunità, che diano esperienza di come la vita non sia (ancora) solo valutazione economica e strumenti tecnologici, ma anche sentimenti.
Il che non significa trasformare il mondo in un grande abbraccio collettivo e un “voemose ben”, a prescindere da tutto. Significa tener conto che il ricco non aiuterà il povero solo perché ha la possibilità di farlo, ma vorrà un tornaconto; significa realizzare che il conflitto morale non si ha tra bene e male, ma tra diversi modi di intendere il bene; che l’emotività di un essere umano varia tra positività e negatività, ma nessuna di queste è da scartare a prescindere, dipende dal loro utilizzo sul piano relazionale e sulla comprensione che si ha l’uno dell’altro.
La Partnership per gli obiettivi sarebbe quindi meglio comprensibile se divenisse una “partnership per strade intraprese”, tenendo conto del fine ultimo – il vivere bene collettivo – e ricercando passo passo quale sia il modo migliore, nell’autonomia di una singola comunità, e nel rispetto dei suoi spazi vitali (dove l’intervento economico non diventi un’ingerenza finanziaria). Non solo un obiettivo, ma una “strada morale” da perseguire insieme a un altro, dove “l’alterità” è chiunque abbia la voglia, e l’intenzione, di percorrere un tratto in compagnia. Se non altro per restare umani, all’interno di quel più ampio fine denominato “sviluppo sostenibile”.
di Damiano Martin