L’Europa a 27 Stati a giugno prossimo affronterà la sua prova più difficile. I valori di un Continente unito si misurano su alcuni punti fondamentali come la competitività, la transizione verde, quella digitale, la concorrenza. Nessuna persona di buon senso può negare che questi e altri punti sono legati e interconnessi tra loro. Se pensiamo alla competitività, dobbiamo immaginare un sistema economico basato sulle tecnologie più avanzate, sulla disponibilità delle materie prime, su produzioni senza sprechi, resilienti e sostenibili.
Quando nel 2019 fu varato il Green Deal lo scenario all’interno dell’Ue era profondamente diverso dall’oggi. Non solo per le formazioni politiche al governo dei paesi, ma anche per un desiderio di riscatto sociale che si faceva strada tra i cittadini europei. L’economia soffriva di alti e bassi – come è sempre stato – ma l’idea di disegnare una nuova Europa partendo dai fondamentali sul modo di produrre, consumare, vendere e crescere, rappresentava la prima vera rivoluzione dopo quella industriale del 1700. Per avere successo bisognava, però, costruire un nuovo patto sociale che riducesse il conflitto e cementasse quel desiderio di riscatto di cui dicevamo. No, non è andata cosi.
Confindustria, per esempio, sostiene che nel Green Deal sia prevalso un approccio ideologico che ha compromesso intere filiere industriali. Gli interventi regolamentati – ha scritto in un documento in dieci punti per il prossimo Parlamento europeo – hanno “aumentato la pressione sulle imprese senza tener conto dell’impatto sulla competitività”.
Il giudizio vuole aprire una discussione, diciamo di tipo riformista, sulla strategia dell’Unione europea. Infatti gli industriali chiedono anche una politica industriale ambiziosa per stare al passo nella corsa alle tecnologie. Confindustria, evidentemente, non è l’unica organizzazione a scrutare l’Europa che verrà. Altri preparano documenti e presenteranno candidati. Ma la domanda è: chi deve inserire la marcia di questa corsa per stare al passo con i tempi ? Una classe dirigente espressione di unità, innanzitutto. Che sappia fare i conti con le contraddizioni che 27 leadership pongono sui tavoli europei ogni giorno. Il futuro sostenibile non è a prescindere, è esso stesso il futuro. Crederci vuol dire darsi da fare senza pregiudizi o steccati ideologici.
La rincorsa affannosa alla mediazione su tutti i temi dell’Ue, escludendo intere categorie sociali, determinanti per qualsiasi cambiamento, ha prodotto regole spesso discordanti e confuse. Si è disarticolato alla base quel patto sociale necessario a fare della vecchia Europa il primo Continente sostenibile del pianeta. Il sistema sociale ha subito contraccolpi senza poter partecipare al disegno del new deal. Prima dell’Europa o dei governi, a credere nella trasformazione e nell’innovazione sostenibile di beni e servizi, sono il mercato, i consumi, le famiglie. La visione ideologica del Grren Deal di cui ha scritto Confindustria, si spiega con questa lacuna diventata strutturale. I sovranismi, come le fughe in avanti su tutto verde e subito, hanno un marchio teorico paralizzante.
Sapevamo che il cammino non era né facile, né di breve durata. Ma bisogna solo insistere e affrontare il futuro con dialogo e praticità. Alternative non ce ne sono. A mano che non si creda che la terra è piatta e che il 24 dicembre arriva sempre Babbo Natale.
di Nunzio Ingiusto