Sono dei preziosissimi regolatori del clima, e la loro assenza impatterà su ogni singola persona su questo pianeta. Invertire totalmente la rotta è ormai impossibile, ma possiamo «ritardare il processo», come spiega il glaciologo Christian Casarotto
Gli scienziati dicono da tempo che con le attuali condizioni climatiche i ghiacciai sotto i 3.500 metri sono destinati a scomparire entro la fine del secolo. In quale misura possiamo ancora salvarli e, soprattutto, come? La Svizzera ha scelto di provarci attraverso una legge.
Domenica 18 giugno nel Paese alpino, tramite un referendum, è stata infatti approvata con il 59,1 per cento dei voti una norma che prevede di ridurre gradualmente l’uso dei combustibili fossili, di aumentare la produzione di energie rinnovabili sul territorio e di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, un obiettivo in linea con le politiche climatiche dell’Unione europea e che consiste nell’ottenimento dell’equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di anidride carbonica e altri gas serra.
Detta anche “emissioni zero” (ma sarebbe più corretto “emissioni nette zero”), neutralità carbonica non significa azzerare totalmente le emissioni di gas serra, ma invece rimuovere dall’atmosfera tante tonnellate di CO2 quante se ne producono. Per riuscirci, da una parte bisogna necessariamente e urgentemente ridurre le emissioni, dall’altra occorre favorire gli investimenti nelle rinnovabili e nei sistemi di assorbimento della CO2, anche preservando i principali pozzi di assorbimento naturali (suolo, foreste e oceani).
Secondo vari esperti, la legge che vincola la Svizzera al raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050 potrebbe aiutare a salvare alcuni dei suoi ghiacciai. La Rete di monitoraggio dei ghiacciai svizzeri ha stimato che il volume dei ghiacciai della Confederazione dal 1850 al 2020 è passato da circa centoventicinque-centocinquanta chilometri cubi a circa cinquanta chilometri cubi.
Le previsioni del National centre for climate services pubblicate nel 2021, inoltre, avvertono che in assenza di misure di protezione del clima nel 2100 si potrebbe salvare solo il cinque per cento circa del volume dei ghiacciai svizzeri registrato nel 2017. Adottando delle misure di protezione del clima, invece, come quelle approvate tramite il referendum di domenica 18 giugno, tale percentuale potrebbe salire al trentasette.
Salvare i ghiacciai è «un processo globale, perché sono una risorsa che interessa tutti», spiega a Linkiesta Christian Casarotto, glaciologo e mediatore culturale al Muse, il Museo delle scienze di Trento. Secondo l’esperto, «hanno un ruolo ecosistemico fondamentale e sono una fonte di acqua utilizzata per scopi civili, agricoli ed energetici. A livello mondiale, ed è il caso dei grandi ghiacciai di Antartide e Groenlandia, sono preziosi regolatori del clima: funzionano un po’ come quel telo argentato che si mette sul cruscotto dell’auto in estate, cioè fanno ritornare verso l’alto buona parte della radiazione solare incidente. Anche chi vive lontano dai ghiacciai, quindi, subirà delle ripercussioni in loro assenza».
Ridurre le emissioni di gas serra e impegnarsi a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, come deciso recentemente in Svizzera, è una misura di protezione del clima sufficiente a salvare i ghiacciai dall’estinzione?
«È una misura necessaria. I ghiacciai alpini rispondono a due aspetti: alle precipitazioni nevose invernali e alle temperature estive. Più nevica in inverno, più fa fresco in estate, meglio stanno i ghiacciai. È chiaro che con un continuo aumento delle emissioni di gas climalteranti abbiamo un aumento delle temperature e, di conseguenza, un aumento della fusione dei ghiacci. Ridurre le emissioni permetterà sicuramente non di invertire la rotta, magari, ma quantomeno di rallentare il processo».
Immaginando di adottare da oggi misure significative, radicali e urgenti di protezione del clima, sarebbe possibile riportare i ghiacciai al volume o all’estensione che avevano in passato?
«La velocità con la quale questi cambiamenti stanno avvenendo è notevole. È come se volessimo fermare una macchina che viaggia a duecento chilometri orari, una cosa ben più difficile che fermare un’auto che viaggia a venti chilometri orari. L’arretramento e la diminuzione di volume che oggi i ghiacciai stanno subendo sono davvero elevati: è molto difficile pensare di invertire la rotta, soprattutto in territori, come ad esempio il Trentino, in cui non ci sono rilievi montuosi di quattromila metri come in Svizzera e altrove. Ma attenzione: questo non vuol dire che siamo spacciati. Oltre a ridurre le emissioni climalteranti, dobbiamo mettere in pratica delle misure di adattamento che ci consentano di vivere in contesti alpini che non sono più riparabili e che in futuro saranno diversi da oggi».
Se la “macchina” dello scioglimento dei ghiacciai viaggia a velocità così elevata, possiamo ancora frenarla o possiamo sperare al massimo di rallentarla?
«Non c’è un solo scenario. Il futuro dei nostri ghiacciai dipende fortemente da come si agirà nei prossimi anni. Se gli interventi saranno messi in atto immediatamente e in maniera importante, è chiaro che la sopravvivenza dei ghiacciai sarà prolungata. Non c’è una data di scadenza, ma un percorso diverso in base a quello che faremo. Andando avanti con gli stili di vita e i consumi attuali, con le emissioni di gas climalteranti di oggi, i ghiacciai non arriveranno alla fine del secolo. Invece, tutto quello che si farà per ridurre l’impatto antropico permetterà di ritardare il processo. È esattamente questo che dovremmo fare, anche per rispetto di chi verrà dopo di noi».
Che differenza può fare un singolo Paese? Voglio dire, se le misure di protezione del clima vengono messe in pratica in modo efficace solo dalla Svizzera e non dall’Italia, ad esempio, ci sarebbe comunque un impatto positivo sulla conservazione dei ghiacciai alpini?
«I cambiamenti del contesto alpino che stiamo vivendo, e che interessano in realtà anche tutti gli altri ecosistemi, hanno portata globale. Benissimo se un Paese, una Regione o una Provincia si impegnano a invertire la rotta, ma bisogna agire a livello internazionale. Forse è questo il passaggio più difficile: stringersi la mano in maniera consapevole per portare avanti un processo che interessa tutti. È importante anche che tutti facciano la propria parte, singolarmente. Tutti noi, al di là della politica, possiamo e dobbiamo adottare sistemi intelligenti di vita, consumi e utilizzo delle risorse».
Quali tecniche si possono adottare sul breve e sul lungo periodo per salvaguardare i ghiacciai? Penso ad esempio ai teli protettivi riflettenti.
«I teli devono essere visti solo come interventi a livello locale. Sono fatti di tessuto non tessuto a due strati, altamente riflettenti e isolanti, e sono usati in contesti già fortemente antropizzati, quindi con piste e impianti di risalita, allo scopo di cercare di portare avanti il più possibile un progetto economico di sfruttamento della montagna legato allo sci. Il telo, che viene messo in estate e poi tolto a fine stagione, ha infatti la funzione di conservare la neve invernale nonostante l’aumento delle temperature. Questo strumento, insomma, deve essere visto come una medicina non per salvare i ghiacciai, ma per riuscire a preservare un contesto sciistico ormai completamente in disequilibrio con le condizioni climatiche attuali».
Il telo non è una misura alternativa alla riduzione delle emissioni o a qualunque altra azione di salvaguardia, insomma.
«Esattamente. L’unica e sola medicina per salvare i ghiacciai è ridurre le emissioni climalteranti: non c’è altro da fare. Il telo si usa soltanto in alcuni contesti, finché si riesce. In Italia è presente sul ghiacciaio del Presena e su una piccola parte della Marmolada, oltre che in modeste porzioni sui ghiacciai della Val Senales, a cavallo tra Italia e Austria».
Esistono altre tecnologie con un effetto paragonabile a quello dei teli?
«Attualmente no. Prima si usava la paglia, con impatti problematici sull’ambiente alpino facilmente immaginabili. Oggi si sta lavorando più che altro sulla realizzazione di teli con diversi materiali, più riflettenti, più performanti e biodegradabili. È facile, infatti, che il telo rimanga imprigionato nella neve. I teli usati al momento inoltre sono altamente riflettenti, ma di breve durata: dopo un paio di stagioni iniziano a sporcarsi, quindi a perdere efficacia, e devono essere sostituiti».
In Italia a suo parere si sta facendo abbastanza per preservare i ghiacciai alpini?
«Nell’ultima Conferenza delle parti è stato detto che le azioni che oggi stiamo mettendo in pratica per ridurre l’impatto antropico, quindi per ridurre le temperature a livello globale, non sono sufficienti. Pensiamo però a questo: la situazione altamente problematica e grave di oggi è stata creata da noi; dunque, sempre noi possiamo essere in grado di fare un passo indietro, di cambiare la rotta, a maggior ragione perché a livello tecnologico negli ultimi anni ci sono stati avanzamenti notevoli. Siamo Homo sapiens: dimostriamo di esserlo».
di Chiara Beretta