A 25 anni Matthew Modabber già vanta una storia imprenditoriale articolata. In tasca ha una laurea alla Bocconi, col sigillo del Graduate Merit Award, e sotto la Madonnina (di Milano) le aziende Salad House e Luya, fondate entrambe con la sorella Venus. Al contempo veste il ruolo di growth manager della social media company BeReal, l’app delle foto vere, contrapposta ai ritocchi di Instagram.
In lui convivono l’anima anglosassone, latina e mediorientale. Italiano per parte di madre, persiano per parte di padre, è nato e cresciuto a Manhattan. A 18 anni, superati i test di ammissione alle università americane, ha optato per l’Italia. “Volevo conoscere fino in fondo le mie origini”, spiega. Da universitario, nella pausa pranzo trangugiava panini e pizzette, ma gli mancavano le insalatone pre-condite e con ingredienti mixati. Ha deciso allora di produrli in proprio con Salad House, che ha due sedi milanesi con 350 insalate al giorno.
Luya è invece un’azienda di leggings in materiali riciclati, in polietilene tereftalato (Pet) e in nylon realizzato con scarti di fabbrica.
Come immagina Salad House entro i prossimi cinque anni? Cosa sogna e progetta?
Lavorrei in ogni grande città, punto di riferimento italiano per le insalate da pausa pranzo. Quindi abbondanti, ricche e gustose, non la solita insalatina di contorno all’italiana.
Ci racconti di Luya.
La parte creativa e di design si trova in Italia, mentre i materiali riciclati provengono da Cina e Thailandia. Al momento la struttura è molto lineare, con figure dedicate allo sviluppo del prodotto e al marketing. A breve assumeremo profili per gestire la logistica, così da rispondere al crescendo degli ordini.
Cosa vuol dire avviare una start up in Italia? Quali sono le sfide?
Le sfide principali sono tre: la burocrazia, con una serie di figure obbligatorie e costose; le leggi per l’assunzione del personale, inflessibili e ormai obsolete per la forza lavoro moderna e competitiva; non ultimo, l’accesso al credito. Le difficoltà che incontriamo ruotano sempre attorno a questi temi.
Come trova gli italiani della GenZ? Gli adulti li considerano bravi ragazzi, però poco “affamati”, senza mordente. Giudizio spietato?
Non penso che i miei coetanei italiani abbiano poca fame. Credo siano stati abituati a fare percorsi più lineari rispetto ai ragazzi americani, e questo li rende meno flessibili. Ad esempio, negli Stati Uniti non scegli la facoltà a 18 anni, scegli un major e un minor, due aree. Non devi per forza calarti subito in medicina, giurisprudenza o economia. Questo consente di conoscere discipline differenti e di relazionarsi con persone che percorreranno strade professionali diverse dalla propria. In Italia, invece, si è meno attratti dall’insieme di competenze e abilità apprese in ambiti diversi. Negli Usa, uno può studiare storia dell’arte e finire in banca, basta che sia brillante e che abbia dimostrato passione e dedizione. Questa flessibilità è importante perché crea una società più dinamica. I miei colleghi italiani sono invece abituati a percorrere strade tradizionali e più sicure, applicando le proprie abilità e competenze solo in certi ambiti. Ed è un peccato, perché dalla contaminazione scaturiscono energia, estro e passione.
Come e in cosa si esprimono l’italiano e l’americano che sono in lei?
Quando sono in Italia mi sento americano e quando sono negli Stati Uniti mi sento italiano. L’approccio alla famiglia è molto diverso tra i due paesi. In Italia rappresenta la spina dorsale della società, la bussola di tutto. Questo vale anche nell’imprenditoria ed è una spinta fortissima per me. Lo dimostra il fatto che ho fondato Salad House con mia sorella Venus. Il mio lato americano, invece, si traduce nel volermi sempre mettere alla prova, nell’andare oltre, nell’avere una “fame” e un’ambizione costanti. L’altro dono americano è la positività, il credere che, in fondo, tutto è possibile.
Papà persiano e mamma italiana. Lei è nato a cresciuto a New York. Ci racconti.
I miei genitori si conobbero alla Federico II di Napoli. Mia madre proseguìil PhD alla Columbia University di New York e per questo a 25 anni, con mia sorella di tre, si trasferirono lì. Io sono nato e cresciuto a Manhattan, poi a 18 anni decisi di venire in Italia. I miei genitori vivono tuttora a Manhattan.
Come organizza il pendolarismo Milano-New York?
In questi mesi ho vissuto di più a New York perché è una fase molto importanteper BeReal. Stiamo lanciando l’app in vari campus americani e quindi sto seguendo il lancio in più Stati. Questo significa creare strategie per penetrare il mercato degli studenti. Terminata questa fase, penso di tornare in Italia ogni sei settimane, anche solo per il fine settimana. Quando sono in Italia seguo più da vicino Salad House e le operazioni in negozio. Fino a poco tempo fa sia io, sia mia sorella Venus eravamo molto operativi. Avevamo aperto due punti vendita in meno di 18 mesi, perciò dovevamo assicurarci che il prodotto e le operazioni fossero lineari. Sporcarsi le mani è essenziale: solo facendo i turni dei dipendenti,preparando le insalate, avendo a che fare con i rider e con i clienti si può davvero creare un prodotto di qualità e attento alle esigenze di tutti. Quando torno a Milano, è per confrontarmi con il responsabile dei punti vendita di Salad House, per pianificare migliorie, nuove campagne e forme di marketing. Luya invece è un e-commerce, quindi in Italia gestisco gli incontri per perfezionare il prodotto, per definire nuove collaborazioni e i nuovi pezzi della collezione.
Milano è la città più vivace, dinamica e internazionale del Paese. O almeno, così la sentiamo noi. Lei come la vede a confronto con New York?
Sono città molto diverse. A New York si respira la sensazione che tutti, nel loro piccolo, siano imprenditori e che tutti vogliano perfezionarsi per raggiungere un altro livello personale, professionale, o sociale. A Milano, anche se molto stimolante, questa spinta costante verso il miglioramento è meno forte. È una città più equilibrata e anche per questo mi piace molto.
New York è la città che non dorme mai. Quante ore lavora per BeReal? Quando riesce a occuparsi del segmento italiano?
New York è insonne ed è per questo che la trovo perfetta. Lavoro a tempo pieno per BeReal, per seguire Luya e Salad House mi sveglio prestissimo e occupo i fine settimana. Poi sono in contatto costante con mia sorella che, stando a Milano, segue da vicino le aziende.
Chi è il suo modello di imprenditore americano e italiano? I due miti: al di là e al di qua dell’Oceano.
Tra gli imprenditori americani apprezzo coloro che sono riusciti a raggiungere i traguardi prefissati credendo nei progetti nonostante le avversità, stringendo i denti e ricavando il meglio da ogni esperienza. In tal senso ammiro Larry Ellison, fondatore di Oracle, che ha avuto un’infanzia difficile, una famiglia umile e non molto solida. Circostanze che confermano che non ci sono limiti e ostacoli per il raggiungimento dei nostri obiettivi, se ci crediamo veramente.In Italia il mio imprenditore mito è invece Giorgio Armani. Ha iniziato a studiare medicina, poi ha fatto il militare, e in qualche modo è riuscito a diventare uno degli stilisti più rispettati e apprezzati nel mondo. Di lui ammiro la capacità di avere ampie vedute, in tutte le proprie fasi ed esperienze di vita.
Da dove viene questo suo piglio imprenditoriale? Forse è questione di dna? È cresciuto in una famiglia di imprenditori?
A dire il vero ho avuto questo spirito fin da piccolo. Quando frequentavo le medie rivendevo scarpe da ginnastica, al liceo organizzavo feste che attiravano anche 400-500 studenti.
Come si vede a 30 anni? Come spera di essere posizionato?
Per i miei 30 anni vorrei aver creato prodotti che sono riconosciuti per aver creato dei cambamenti culturali, dunque una moda più confortevole e sostenibile e un cibo sano.
Fonte: Forbes.it