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Perseguire la pace, nella (macro) storia dell’uomo, è sempre stata una rincorsa alla pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno. Parimenti, è curioso come la Storia, intesa come disciplina nelle scuole dell’obbligo, sia insegnata come sviluppo lineare del progresso umano da una guerra all’altra. Il fascino del conflitto: che si sia protagonisti o spettatori, il genere umano si aggrega, tifa, parteggia per una parte o l’altra, e talvolta scende in campo, non perché vi sia da difendere il bene contro il male; piuttosto, perché vi sono due beni da difendere, e uno vorrebbe prevalere sull’altro.

Questo, fintantoché non si sente il bisogno di Pace, di una giustezza in grado di accontentare le parti, così da perseguire un periodo più o meno lungo di tranquillità e convivenza; e poi ricominciare. Nella sensibilità dell’Europa centro-occidentale, l’avvento della guerra russo-ucraina è stato un duro colpo – veicolato perlopiù dai mass media, la cui veridicità è filtrata – per la faticosa pace raggiunta dopo la Seconda Guerra Mondiale. Peraltro, una prospettiva quantomeno discutibile ed eurocentrica, cieca ai conflitti mediorientali, africani o sudamericani, non solo militari, ma soprattutto politici ed economici.

Tutto ciò risulta problematico al perseguimento di una pace sociale, e sostenibile, così come vorrebbe il goal n.° 16 dell’Agenda ONU. “Pace, Giustizia e Istituzioni Solide” racchiude in sé una complessità concettuale, a tratti irrisolvibile. Cosa significa, per esempio, avere una “istituzione solida”, se per solidità intendiamo, e aspiriamo, a una democrazia che preservi l’opinioni di molti, senza inficiare la solidità stessa dell’ istituzione (pensate agli stati parlamentari che scelgono un sistema maggioritario, anziché proporzionale)?

L’istituzione solida dovrebbe guidare, conseguentemente, alla Giustizia, secondo parametri di equità, uguaglianza, e possibilmente fratellanza. Ma, oltre il concetto, chi decide cosa è giusto, e cosa non lo è? Cosa significa “giusto”? Immanuel Kant provò a stabilire, entro i confini della ragione, delle leggi morali assolute e autonome, (potenzialmente) condivisibili da chiunque. Quanto, però, queste tengono conto della sfera emotiva, e quanto spazio possiamo lasciare a quest’ultima nelle decisioni da prendere tanto istituzionalmente quanto quotidianamente?

E quindi, evitando di affrontare il problema della Giustizia, giungiamo alla Pace: lo stesso Kant, nello scritto Idee per una storia universale, in un intento cosmopolita, riferisce nella quarta tesi: “Il mezzo di cui si serve la natura per mettere in opera lo sviluppo di tutte le loro disposizione è il loro antagonismo nella società, in quanto però infine diventa causa di un ordine legittimo”. Antagonismo, o per dirla in altre parole, “insocievole socievolezza” dell’essere umano. Kant aveva realizzato quanto fosse importante, per la storia, un certo grado di conflittualità per il progresso, la generazione di forze e tensioni in grado di muovere verso un ipotizzabile miglior benessere.

Lungi dal voler propugnare qualsiasi istanza di lotta e di conflitto, forse varrebbe la pena guardarsi allo specchio, e consapevolizzarsi del fatto che uno scontro sia necessario, per un bene superiore. Gridare alla Pace, cercando di evitare un conflitto, sembra sia il modo più semplice e veloce per scatenare una guerra. L’Europa stessa ne è un esempio, per quanto parziale, parzialissimo: il suo più lungo periodo di pace è stato conseguito durante una guerra statica, politica, “fredda”, conscia del fatto che lo scontro era già in atto, e soprattutto rischioso per le sorti del pianeta stesso.

Consapevoli di una conflittualità perenne, potrebbe risultare più facile focalizzarsi sul problema: perché il conflitto? Quale può essere la soluzione compromettente tra le due parti? Quale tipo di Giustizia adottare, dunque? A questo proposito, ci viene incontro il XX secolo, con le teorie femministe riguardanti la Cura e il suo modo di esprimersi nel mondo. Non una sostituzione alle fondamenta dell’autonomia giuridica, ma una focalizzazione diversa e aggiuntiva nei confronti della co-responsabilità e dello spazio relazionale. “Aver cura del rapporto con l’alterità”: per quanto possa suonare “hippie”, permane l’invito alla comprensione, non solo di sé stessi, ma anche delle persone al nostro fianco. E laddove non riesca l’istituzionalizzazione dell’emotività, si provi con l’educazione, l’abitudine alla diversità proveniente dal basso, dalla società che appunto riesca a integrare senza ghettizzare, includere e allo stesso tempo conservare.

Una questione di paradossi e contraddizione. Forse, forse, per eludere il conflitto bisogna comprendere il conflitto, e permettere ad ambo le parti di sopravvivere fianco a fianco, nella generazione di una terza forza in grado di trainare entrambe, verso il futuro. Quale pace, quale giustizia, quindi: quella che permane nello scontro, e permette a chiunque la propria vita, co-dipendente da esso.