Nel gennaio del 1914 Henry Ford annunciò un piano che sembrava capovolgere le ordinarie logiche dell’impresa di allora, specialmente di quelle dei “campioni” del nascente capitalismo americano: la riduzione dell’orario di lavoro da nove a otto ore giornaliere e l’aumento del salario giornaliero da 2,3 a 5 dollari. Nonostante le tante voci contrarie l’imprenditore americano perseverò nella sua scelta che alla fine avrebbe portato all’aumento della produttività del lavoro di circa il 50%, alla riduzione dell’assenteismo e del turnover, con utili che furono superiori a quelli in assenza di intervento. Non fece questo per bontà o filantropia, ma per una scommessa di convenienza: far star meglio le persone avrebbe molto probabilmente stimolato il senso di reciprocità nei dipendenti che infatti si tradusse a favore dell’impresa. Con le parole dello stesso Ford: “Lo scopo più nobile del capitale non è quello di fare più soldi, ma di fare in modo che i soldi facciano di più per il miglioramento della vita.”
Probabilmente il padre del regime fordista di produzione, basato sull’integrazione della fabbrica e le economie di scala per la produzione di prodotti indifferenziati, aveva capito che migliorare le condizioni di lavoro (che all’epoca voleva dire in primo luogo far crescere il salario) significa far crescere la motivazione e l’attaccamento al lavoro. Teoricamente l’avrebbe spiegato in termini economici George Akerlof Premio Nobel per l’economia, quando nel 1982 (ben settanta anni dopo!) avrebbe sottolineato che una delle spiegazioni dei maggiori livelli di salario risiede in una forma di scambio di doni nell’impresa, attivando forme di reciprocità e di identificazione con la struttura aziendale, che finiscono per far stare meglio lavoratori e impresa. Dare fiducia da parte dei datori di lavoro con l’auspicio che questa fiducia possa essere ricambiata e tradursi poi in una maggiore competitività.
Ma cosa ne pensano i lavoratori? Una recente indagine condotta a livello europeo conferma questa ipotesi: i paesi in cui c’è una maggiore motivazione aziendale sono anche quelli dove il livello di produttività è più alto. E per l’Italia? La situazione è poco lusinghiera, nel senso che nel nostro paese si assiste a un basso livello di motivazione accompagnato da bassa produttività, anzi saremmo all’ultimo posto in Europa per livello di soddisfazione dei lavoratori sul posto di lavoro, con un 43% di persone che si dichiarano soddisfatte dall’attuale occupazione rispetto a una media europea del 59%.
Addirittura solo il 41% suggerirebbe la propria impresa come un buon posto in cui lavorare contro il 55% della media europea. L’elemento preponderante per questa valutazione è la qualità del management, nel senso che laddove la leadership aziendale è considerata degna di fiducia e di affidabilità c’è maggiore soddisfazione sul posto di lavoro. E anche qui veniamo all’ultimo posto! Un aspetto particolarmente preoccupante è che questa situazione non è percepita dai manager, da noi c’è la maggiore distanza tra la percezione del management del proprio stile di gestione e quella dei dipendenti, anche se siamo in buona compagnia perché pur essendo all’ultimo posto siamo preceduti di poco da Regno Unito, Germania e Francia. Perciò l’avere una direzione aziendale particolarmente autocentrata accumuna le grandi economie europee.
C’è quindi un tema ampio di “motivazione” delle persone che richiama la necessità di una “leadership fiduciaria” e nel cui ambito collocare anche la questione del nesso tra retribuzione e produttività. Siamo l’economia europea dove, anche per effetto dell’inflazione degli scorsi anni, l’incremento dei salari reali è stato minore e questa situazione si è accompagnata anche a modeste performances della produttività. Stando agli ultimi dati dell’Istat la produttività del lavoro nel 2023 si è ridotta del 2,3% rispetto all’anno precedente e nel periodo 2014-2023 è cresciuta in media dello 0,5% contro una media europea dell’1,1%, la metà di quella tedesca anche se migliore della Francia, che non a caso è a noi vicina per la soddisfazione degli occupati. Non è questione di aumentare la quantità di lavoro, ma di far crescere la sua “qualità, ossia il valore aggiunto (che infatti è aumentato molto poco).
Oggi la retribuzione non assume solo una valenza economica, ma è una sorta di segnale di riconoscimento del proprio contributo in relazione a quello di altri. Il confronto è fatto non solo in termini assoluti, ma anche in termini relativi, in un mondo sempre più aperto, i benchmark sono internazionali. Pensiamo ai laureati, chi si trasferisce all’estero guadagna circa una volta e mezzo quello che otterrebbe in Italia. Certo la comparazione va fatta anche con il costo della vita all’estero, ma la soddisfazione complessiva del lavorare in realtà straniere è comunque in genere maggiore che in Italia.
La sicurezza del mix stipendio-condizioni di vita è un parametro che emerge tra i valori considerati dai giovani, come conferma una recentissima analisi svolta dalla Camera di commercio di Modena con IPSOS e in collaborazione con l’Istituto Tagliacarne sul senso del lavoro per i giovani.
Se quindi retribuzione, motivazione e innovazione sono un trinomio inscindibile che causa la produttività, la palla è nelle mani di quanti gestiscono le imprese, chiamati ad adottare approcci che valorizzino questi aspetti attraverso uno schema di relazione con i dipendenti che combina fiducia, autorità e collaborazione, basato in primo luogo sulla lealtà verso i dipendenti, una lealtà che una volta espressa molto spesso è contraccambiata e spinge la leva della competitività. Una lezione che ci viene da Henry Ford che l’aveva sperimentata più di un secolo fa, ma che aggiornata rispetto ai nostri tempi dimostra, a maggior ragione, una fortissima attualità.
di Gaetano Fausto Esposito