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I pensatori classici greci – vedi Platone, vedi Aristotele – già intrisi di pensiero e questioni sopra i massimi sistemi, attribuirono la nascita del pensiero critico a qualche secolo precedente a loro. Siamo intorno all’VIII, VII secolo a.C., e si ricorda, nella Grecia dei sette sapienti, il primo di essi: Talete. Colui che lo Stagirita riconobbe come “primo pensatore a ricercare l’arché, il principio di tutte le cose”, sostenne vi fosse, come fonte e origine della vita, nientepopodimeno che… l’acqua. Un’osservazione empirica, la sua, da naturalista e “scienziato” primoridiale, e pure una bella coincidenza. Si dà il caso – col senno di poi – che l’essere umano sia fatto per il 70% d’acqua (come la Terra, guardacaso), abbia una discreta necessità di bere (ogni tanto) e abbia bisogno del monossido di idrogeno per cucinare, pulire, raffreddare, produrre, trasformare la materia.

Serve a tutto, in sostanza (acquosa).

Senz’acqua, non c’è vita, direbbe La Palisse. Ma l’ovvio non è mai sufficientemente espresso e dichiarato – repetita iuvant, secondo una celebre cultura latina che imparò a trasportarla, l’acqua, senza l’ausilio di pompe e forze esterne, ma col solo ingegno dell’inclinazione e della tecnica idraulica romana. Per questo l’agenda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo sostenibile prevede, al punto 14, la salvaguardia della “Vita sott’acqua”. Questo perché, in termini di volume, l’acqua rappresenta il 99% dello spazio occupato sul pianeta. Perché 3 miliardi di persone dipendono dalla biodiversità marina; perché il mercato globale legato all’acqua è di 3 mila miliardi di dollari annui, pari al 5% del PIL mondiale; perché gli oceani custodiscono circa 200.000 specie animali (identificate) e partecipa per il 30% all’assorbimento dell’anidride carbonica nell’atmosfera (tramite alghe marine).

Sono solo alcuni dati relativi agli oceani e alla loro importanza. Tutto, come già scritto, tanto ovvio quanto essenziale per la vita dell’essere umano sul pianeta. Ciò che però è meno evidente, e fornisce qualche spunto di riflessione “laterale”, rispetto al già noto, sta nel titolo di quell’obiettivo ad agenda. Non si tratta, solo, di vita dell’acqua, o di vita nell’acqua; è una questione di vita “sotto” l’acqua. Perché specificare questo sottendere alla superficie, alla proveribiale linea d’orizzonte che traccia il confine tra il cielo, il visibile, e l’oceano, il non-visibile, tra ciò che si vede e ciò che si nasconde, e per il quale bisogna infilare la testa dentro, trattenendo il respiro?

Perché c’è finito qualcosa, evidentemente, sotto al mare. Come l’aver avuto a disposizione, a casa nostra, di un grande tappeto blu, gigantesco. Un tappeto per il quale non vi è la percezione di una sua finitezza, da qualsiasi punto lo si guardi. Un tappeto infinito, sotto al quale nascondere cose: liquidi estranei, materiale non utilizzabile, rifiuti. Qualcosa che sembra infinito, e che la sua infinità si pensa possa contenere, e nascondere, tutto quanto. Solo che così non è: anche l’acqua finisce. Finisce nella sua scarsità, e finisce nella sua capacità di sopportare ciò che non le appartiene, e di preservare gli esseri viventi che vivono nel e grazie all’acqua, dolce o salata che sia.

Sotto l’acqua sono state riversavate acque di reflusso industriale, disastri ecologici, materiale chimico e plastico inadatto alla vita marittima, con l’ignorante pretesa che bastasse allontanare dagli occhi ciò che non fosse utilizzabile, o produttivo, per risolvere un problema. L’imprevisto ha portato ad avvicinare al cuore della Terra ciò che la danneggia e ne altera gli equilibri ecosistemici. L’obiettivo del punto 14 menziona, chiaramente, quali sono i risultati da raggiungere tra il 2025 e il 2030, nei termini di rallentamento dell’inquinamento, di salvaguardia della fauna ittica e di preservamento delle aree costiere e marittime.

Tutto corretto, se non fosse che nel frattempo l’esorbitante incremento delle tecnologie ha portato altra materia non prevista, nel mare: materiale digitale, come server, elettronica avanzata, componenti rigidi dei nostri sistemi informatici. Enormi sistemi di memoria e di accumulo virtuale dei dati vengono calati nel mare per consentire il loro perpetuo funzionamento a temperatura controllata. L’acqua viene utlizzata per mantenerli freschi e operativi, in un continuo riciclo che porta al surriscaldamento e all’evaporazione del liquido stesso, continuando l’opera di danneggiamento dell’ecosistema marino. Di nuovo, sotto il pelo dell’acqua.

Il sottotitolo del goal 14, “conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”, non dà una corretta misura di quel che si dovrebbe fare. Prima di conservare, e ben prima di utilizzare, bisognerebbe preservare. Persiste un paradigma di manipolazione, dall’uomo all’ambiente, quando sarebbe più corretto l’inverso: l’ambiente che soverchia l’uomo, e quest’ultimo che vi si adatta, in simbiosi e cura verso l’ecosistema, senza tendere al nascondere ciò che ritiene inutile. Dovrebbe subentrare un senso di sacralità – nel senso di sacer, di intoccabilità – verso l’acqua, elemento inorganico alla base del mondo organico, e della vita. Elemento liminale, tra il visibile e l’invisibile, la vita e la sua assenza, a cui dobbiamo prestare attenzione, tanto sopra quanto sotto il suo confine orizzontale.

Continuiamo a nascondere alla vista ciò che vi è di scomodo nelle nostre vite, ma in qualche modo questo riaffiora, a ricordarci che non esiste solo ciò che è utile e produttivo.

Abituiamoci a guardare anche “sotto il pelo dell’acqua”.

di Damiano Martin