E cominciata il 7 dicembre in Canada la Cop 15, conferenza mondiale sulla biodiversità. Telmo Pievani: “La quinta estinzione di massa, che ha riguardato quasi tutti i dinosauri 66 milioni di anni fa, si è completata in 300mila anni. L’attuale estinzione, paragonabile a quella, si sta consumando in pochi secoli”.
Le attività umane stanno causando la sesta grande estinzione di massa a un ritmo migliaia di volte più rapido di quello dell’estinzione dei dinosauri, causata dall’impatto di un asteroide sulla terra.
Di come rallentare questa estinzione si parlerà dal 7 al 19 dicembre a Montreal in occasione della Cop 15, sorella “minore” della Cop 27 sul clima che si è conclusa poche settimane fa.
La quindicesima Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica definirà il piano strategico globale per il prossimo decennio, fissando una serie di obiettivi specifici e misurabili da raggiungere entro il 2030 per fermare, o quanto meno rallentare, la perdita di biodiversità in atto, tutelando le specie e i servizi ecosistemici che forniscono. Teoricamente l’adozione di questo piano ci dovrebbe traghettare, secondo gli organizzatori della Cop, verso un 2050 in cui “la biodiversità è valorizzata, conservata, ripristinata e usata con saggezza, preservando i servizi ecosistemici, sostenendo un pianeta in salute e ottenendo benefici essenziali per tutte le persone”.
Qual è lo stato di “salute” della biodiversità sul nostro pianeta?
Le notizie sono pessime, i dati sono in peggioramento su tutti i fronti e non stiamo facendo abbastanza. Anzi, stiamo perdendo molto tempo. La biodiversità sta diminuendo, gli ecosistemi si stanno impoverendo e in particolare sono allarmanti i dati, confermati dalla comunità scientifica un anno fa, sulle acque dolci: negli ultimi 50 anni abbiamo ridotto di oltre l’80% la biodiversità in fiumi e laghi, sono cioè scomparse 8 specie su 10 di pesci e alghe. In quegli stessi laghi e fiumi tuttavia la biomassa è rimasta stabile: significa che il posto delle forme di vita estinte è stato preso da specie invasive.
Abbiamo raggiunto gli obiettivi di tutela della biodiversità che ci eravamo dati, con la precedente Cop, per il decennio 2010-2020?
Qualsiasi obiettivo dovrebbe essere legato a un impegno vincolante, altrimenti dovremmo chiamarlo “speranza”. Finché rimarremo nel campo dei buoni propositi l’efficacia di queste conferenze sarà sempre molto limitata. L’unico aspetto su cui abbiamo notizie moderatamente positive è che stiamo avanzando in uno dei target, quello di arrivare, entro la metà di questo secolo, a proteggere il 30% del territorio mondiale, inclusi oceani e mari. Piano piano quella percentuale sta aumentando, sebbene non alla velocità necessaria. Da questo punto di vista l’Italia non è messa male ed ha una superficie protetta superiore alla media europea e pari a circa il 20%. Bisogna fare ancora tanta strada per arrivare al 30 e poi al 50%, estendendo e collegando tra loro le aree protette. C’è però un’altra buona notizia per quanto riguarda il nostro Paese.
Quale?
L’Italia è l’unica nazione europea ad aver deciso di utilizzare una parte dei fondi del Pnrr per aprire un Centro Nazionale per la Biodiversità: avrà il suo quartier generale a Palermo ma vedrà la partecipazione di 50 istituzioni scientifiche. Sarà diviso in alcuni grandi filoni: biodiversità dei mari e delle acque, biodiversità terrestre, salute umana (ad esempio per ridurre il rischio di pandemie) e infine urban ecology. Non dimentichiamo infatti che piante e animali vivono anche nelle città.
La Cop 15 sulla biodiversità potrebbe essere un flop?
Il rischio c’è, ma dalla Cop 27 sul clima è arrivato un buon segnale: l’istituzione di un fondo di risarcimento ai Paesi poveri. La speranza di tutti noi è che la Cop 15 faccia qualcosa di analogo anche sulla biodiversità.
Gli scienziati definiscono quella in corso come la “sesta estinzione di massa”. Di cosa parliamo?
Si tratta di un’efficace metafora inventata 25 anni fa da due grandi studiosi morti recentemente, Edward Wilson e Richard Leakey. Questi due scienziati fecero un calcolo molto complesso e ci spiegarono questo: nel nostro passato evolutivo ci sono state cinque grandi catastrofi durante le quali si sono estinte quasi due terzi di tutte le forme di vita esistenti a causa di una serie di ragioni, come cambiamenti climatici, eruzioni vulcaniche e impatti di asteroidi sulla terra. Wilson e Leakey ci avvisarono che gli attuali ritmi di estinzione sono equiparabili a quelli delle altre cinque grandi catastrofi del passato. Per questo spiegarono che siamo dentro la sesta estinzione di massa.
Come vennero accolte le loro osservazioni?
Come al solito: sulle prime vennero presi per catastrofisti che volevano spaventare la popolazione. Gli studi condotti in seguito hanno dimostrato che avevano ragione: la sesta estinzione di massa è in corso.
E quali sono le peculiarità della sesta estinzione di massa?
La prima è che è estremamente più veloce delle altre di vari ordini di grandezza. Tanto per capirci: la quinta estinzione di massa, che ha riguardato quasi tutti i dinosauri 66 milioni di anni fa, si è completata in 300mila anni. L’attuale estinzione, paragonabile a quella, si sta consumando in pochi secoli. Questo è un grosso problema perché la natura fatica a riprendersi: affinché nascano nuove specie e si adattino a un nuovo contesto ambientale devono passare diverse generazioni, e la frenetica attività umana non concede tutto questo tempo. C’è però un’altra differenza fondamentale con le estinzioni del passato: che questa è causata solo ed esclusivamente alle attività umane, prima tra tutte la deforestazione.
Quindi l’uomo fa più danni di un asteroide.
Sì, è quello che dico sempre. Oggi l’asteroide ha un nome e un cognome: homo sapiens.
A qualcuno potrà sembrare insignificante la perdita di una rana, un insetto, una pianta o un fungo. Perché invece non lo è?
Innanzitutto è sbagliato in linea di principio: una rana è un essere vivente tanto quanto noi e non abbiamo nessun diritto di estinguerla. La seconda ragione è che non ci conviene. A chi dice “chi se ne frega degli insetti?” la comunità scientifica risponde: attenzione, quasi il 70% di tutto ciò che noi umani portiamo a tavola – come frutta e verdura – dipende dagli insetti impollinatori. Allora, prima di fregarcene delle api o dei bombi dobbiamo fermarci a riflettere: se estingueremo queste specie, dovremo trovare qualcuno che faccia l’impollinazione artificiale al posto loro e questo avrà anche un costo economico. Oggi quel servizio viene svolto gratuitamente. Per questo parliamo di “servizi ecosistemici”.
C’è poi un altro capitolo, quello delle pandemie.
Sì, e stiamo ancora pagando un caro prezzo per il Covid. Se deforestiamo aumentiamo le probabilità di entrare in contatto con animali portatori di virus, come è accaduto con il Sars-Cov-2. Insomma, tutta la nostra vita, la nostra economia, dipende dalla biodiversità.
Lei ha accennato all’economia: è immaginabile una soluzione al problema dell’estinzione della biodiversità senza un radicale cambiamento del nostro modello di sviluppo?
No, sebbene non sia uno studioso di economia sono convinto che non sia possibile per ragion strettamente scientifiche, pragmatiche e non invece ideologiche. Noi oggi conosciamo le cinque principali cause di distruzione della biodiversità: la deforestazione; l’aumento della popolazione umana; le specie invasive diffuse attraverso i commerci e il turismo; l’inquinamento e per finire la caccia e la pesca intensive. Queste cause oggi rappresentano il nostro modello di sviluppo, consumo e commercio. Se vogliamo ridurre l’impatto sulla biodiversità dobbiamo necessariamente passare a un modello economico non predatorio.
di Davide Falcioni
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