“Un tempo quando nuotavamo nel fiume avevamo paura degli alligatori. Ora è difficile trovare anche solo un piccolo geco.” Marcos Rogério Beltrão dos Santos è un attivista ecologista brasiliano. Vive nello stato di Bahia, nell’est del Paese. Quando incontra i ricercatori di Earthsight indossa un cappello in paglia e una maglietta blu sulla quale campeggia la scritta “senza Cerrado, senza acqua, senza vita”. Il Cerrado è il bioma che domina le terre in cui vive, e lo slogan si riferisce alle devastazioni ecologiche che stanno vivendo. È lui a raccontare l’aneddoto relativo a gechi e alligatori. La colpa della scomparsa della fauna, spiega, è da ricercare nell’industria agricola locale.
La storia di Marcos dos Santos è contenuta in Fashion Crimes, un corposo report realizzato dalla no-profit inglese Earthsight e ottenuto in anteprima da Materia Rinnovabile e altri media internazionali. Gli investigatori dell’ONG hanno indagato sulle coltivazioni di cotone brasiliano, specificamente nella zona occidentale di Bahia, e i risultati sono notevoli. Secondo i ricercatori, milioni di capi venduti nel mondo da brand come H&M e Zara sono realizzati con materia prima connessa a deforestazione, appropriazione di terre, violazioni dei diritti umani e violenze
Il Cerrado, l’ecosistema a rischio di cui nessuno parla
Lo sfondo delle vicende raccontate nel report è il Cerrado. Si tratta di uno dei più estesi biomi sudamericani, un’ecoregione che si estende per quasi due milioni di chilometri quadri tra Brasile, Paraguay e Bolivia. Si tratta di una grande savana tropicale, che include praterie più o meno brulle e macchie di vegetazione. Ospita un terzo della biodiversità brasiliana, il 5% delle specie mondiali. Al suo interno si trovano armadilli, giaguari, formichieri, ocelot. La popolazione che lo abita è in costante crescita: 76 milioni di persone nel 2019, più dell’Italia intera.
Soprattutto, è uno dei territori più minacciati nel Pianeta. Mentre nell’ultimo anno il tasso di deforestazione della foresta amazzonica è diminuito grazie alle politiche dei presidenti brasiliano e boliviano Lula e Petro, il Cerrado ha visto un +43% di tagli rispetto al 2022. E, a differenza della foresta tropicale che sorge poco al di sopra, il nemico numero uno non è la soia, ma il cotone.
Deforestazione e inquinamento dietro al cotone di una t-shirt
Fashion Crimes ricostruisce il tragitto percorso da più di un milione di tonnellate di cotone. I ricercatori, si legge nel report, hanno ricostruito questo viaggio sia grazie allo studio di atti processuali, sia grazie all’uso di rilevazioni satellitari, sia fingendosi investitori stranieri per infiltrarsi dentro le coltivazioni. I primi nomi ad apparire sono quelli di due big dell’agroindustria brasiliana: SLC Agrícola e Grupo Horita. La prima controlla 44.000 ettari di campi di cotone nella sola Bahia occidentale (“più di 60.000 campi da calcio” si legge nel report) ed è il principale produttore brasiliano. Grupo Horita è tra i primi sei, e possiede 140.000 ettari nella regione.
L’agroindustria a Bahia preleva 2 miliardi di litri d’acqua al giorno e sversa 600 milioni di litri di pesticidi all’anno. L’abbattimento della vegetazione del Cerrado, non attribuibile ovviamente alle sole due aziende sopra citate, produce emissioni climalteranti pari a quelle di 50 milioni di automobili in un anno, si legge in Fashion Crimes.
SLC e Grupo Horita avrebbero, secondo lo studio, un pesante passato. “Nel 2014 l’agenzia ambientale di Bahia ha trovato 25.153 ettari di deforestazione illegale nelle fattorie del gruppo Horita a Estrondo, una mega tenuta nel comune di Formosa do Rio Preto. Nel 2020 la stessa agenzia ha indicato di non trovare i permessi relativi a 11.700 ettari di deforestazione effettuata dall’azienda tra il 2010 e il 2018. IBAMA, l’agenzia federale di controllo ambientale, ha multato Horita oltre 20 volte tra il 2010 e il 2019.” Non va meglio a SLC: “IBAMA ha multato SLC per oltre 250.000 dollari dal 2008 a Bahia”.
Land grabbing e violenze contro i geraizeiros
Oltre a spulciare gli atti processuali e amministrativi, Earthsight racconta di rilevazioni proprie. In particolare, gli investigatori dell’ONG avrebbero provato tramite immagini satellitari che una piantagione Horita sottoposta allo stop delle produzioni dalla stessa agenzia IBAMA sopra citata sarebbe rimasta in attività, nonostante gli ordini delle autorità, dal 2017.
Assieme ai crimini ambientali ci sarebbero poi le questioni proprietarie e relative ai diritti umani. Nella tenuta dell’Estrondo vivono comunità di agricoltori locali, detti geraizeiros. Le loro terre sono pubbliche e quindi protette, sostiene Earthsight, ma sarebbero state sottoposte ad accaparramenti illegittimi. “Negli anni Settanta e Ottanta i proprietari di Estrondo si sono illegalmente appropriati di oltre 400.000 ettari di terreni pubblici coperti da vegetazione nativa del Cerrado. Più della metà di questa area è stata deforestata. 10 anni fa i geraizeiros hanno iniziato a subire intimidazioni e molestie da parte di uomini armati che lavoravano per i proprietari e gli affittuari di Estrondo.”
Dal campo al centro commerciale, il cotone certificato Better Cotton
H&M e Inditex ‒ il conglomerato spagnolo proprietario di Zara, Bershka, Pull&Bear e altri brand ‒ non interagiscono direttamente con SLC e Grupo Horita. Le due compagnie brasiliane vendono il proprio cotone ad aziende asiatiche che realizzano il prodotto finito poi rivenduto ai marchi occidentali. Earthsight sostiene di aver tracciato otto imprese asiatiche che si approvvigionano di cotone brasiliano prodotto dalle due big di cui sopra nella regione di Bahia, e che lo usano per i prodotti poi venduti come H&M e Zara.
Proprio su questo lato della filiera si concentra la questione della trasparenza. Il cotone usato da questi celebri brand è quasi interamente certificato Better Cotton, marchio che a livello globale promette di verificare le filiere per ripulirle da abusi e danni ambientali. “Ma il cotone che abbiamo collegato ai diritti fondiari e agli abusi ambientali in Bahia portava la sua l’etichetta”, scrivono i ricercatori. L’accusa, insomma, è quella classica di greenwashing: fingere pratiche ambientali positive senza implementarle fino in fondo.
La risposta di H&M e Inditex
Contattate da Materia Rinnovabile, sia H&M sia Inditex promettono di “prendere molto sul serio” le accuse mosse da Earthsight. “Better Cotton ha avviato un’indagine di terze parti non appena questi risultati sono stati portati alla sua attenzione”, spiega H&M. “Il nostro gruppo è stato uno dei primi marchi a passare al 100% cotone biologico, riciclato o proveniente da fonti sostenibili. Tuttavia, questo non è il punto di arrivo del percorso e il report evidenzia chiaramente la necessità per tutti gli attori di continuare a lavorare per migliorare ulteriormente gli standard e i sistemi di tracciabilità, cosa che sosteniamo pienamente. Siamo in stretto dialogo con Better Cotton per seguire il risultato dell’indagine e i prossimi passi che saranno intrapresi per rafforzare e rivedere i loro standard.”
Dello stesso tenore la risposta di Inditex: “Esortiamo [Better Cotton] a condividere il risultato della loro indagine di terze parti il prima possibile, e a adottare tutte le misure necessarie per garantire una certificazione del cotone sostenibile che rispetti gli standard più elevati”.
Nella giornata di ieri, 10 aprile, prima della pubblicazione del report targato Earthsight, l’agenzia Reuters ha battuto una notizia importante. Sempre Inditex avrebbe scritto una lettera in data 8 aprile a Alan McClay, amministratore delegato di Better Cotton, chiedendo spiegazioni per quanto rivelato dalla no-profit inglese.
Earthsight conclude il suo report indicando cosa l’ente certificatore dovrebbe fare per rispettare il proprio compito: risolvere i conflitti d’interessi tra controllori e controllati, verificare che le fattorie operino d’accordo con le comunità locali, non concedere il proprio marchio a cotone cresciuto su terre disboscate anche prima del 2019. Ma c’è spazio anche per i brand: “Fino a quando ciò non avverrà ‒ si legge ‒ le imprese devono andare oltre l’uso di schemi di certificazione per garantire che i loro beni siano ottenuti in modo etico, e devono istituire politiche proprie e controlli più rigorosi”.
di Lorenzo Tecleme